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La Guerra di Crimea e il coinvolgimento del Regno di Sardegna e del Conte di Cavour

Per inquadrare meglio i complessi problemi storici collegati con l’argomento, conviene delineare prima il problema della questione d’Oriente (come veniva chiamata dalle Cancellerie europee) e poi passare al ruolo che vi ebbero il Piemonte e Cavour. Alla base della questione d’Oriente c’erano motivi storici antichissimi e pressioni politiche molto recenti. Apparteneva senza dubbio ai primi il problema dei pellegrini cristiani nei luoghi santi. Dopo la riconquista di Gerusalemme da parte del Saladino (1231, battaglia dei Corni di Hatting e caduta del regno di Gerusalemme con la morte di re Baldovino, il re lebbroso delle ballate dei trovatori), tutta la Palestina era entrata a far parte dell’Impero ottomano. In termini amministrativi, dipendeva dal pascià di Damasco e, tutto sommato, l’accesso dei pellegrini cristiani ai luoghi santi non si era interrotto, come testimoniano i numerosi resoconti di viaggio nei secoli successivi. Il regime ottomano non proibiva l’accesso ai luoghi santi, anche se proibiva le manifestazioni pubbliche di culto, limitandosi a far pagare ai pellegrini un’apposita tassa. Si può dire, un po’ sbrigativamente ma con fondamento, che la situazione dei pellegrinaggi cristiani ai luoghi santi dipendeva molto dalla persona che sedeva sul trono del pascià di Damasco, nel senso che piccole o grandi angherie potevano essere esercitate a danno dei pellegrini ma raramente per ordini dall’alto, molto spesso per la normale vischiosità dei rapporti amministrativi e di polizia. A metà del XIX secolo, proprio intorno al 1850, successe una di queste crisi dovuta, per vero, più alla litigiosità delle varie sette cristiane che non all’islam. Infatti (come sanno ancora oggi i pellegrini in Terra Santa) vi è una incredibile commistione di responsabilità e possesso dei diversi luoghi santi, ove frequentemente la chiave di accesso è nelle mani di una confessione cristiana (cattolica o protestante che sia) mentre altre parti del medesimo fabbricato spettano all’amministrazione di soggetti diversi (per esempio armeni o ortodossi). Successe allora che i cattolici volevano deporre una grande stella d’oro a Betlemme, nella basilica della Natività, sul luogo ove la tradizione voleva che sorgesse la mangiatoia del Presepio. Sorse una immediata lite con gli ortodossi i quali vantavano a loro volta diritti sul luogo sacro. Non era certo la prima volta che contrasti del genere sorgevano, ma normalmente si esaurivano in poco tempo. Quella volta, invece, le liti degenerarono in parapiglia furibondi con l’intervento necessario delle forze dell’ordine turche. Non si sa bene se ci furono morti o meno, comunque le cancellerie delle grandi potenze intervennero subito secondo lo schieramento tradizionale: il cristianissimo re di Francia difendeva i cattolici unitamente all’Impero d’Austria, lo zar di tutte le Russie assicurava la difesa degli ortodossi. Si deve ripetere che l’Impero turco c’entrava poco in tutta questa faccenda, se non per una normale questione di ordine pubblico. Da notare l’assenza, tra le prese di posizione delle grandi potenze, dell’Inghilterra, evidentemente dimentica delle gesta di Riccardo Cuor di Leone durante le Crociate. Un secondo punto della questione d’Oriente era molto più concreto e delicato e riguardava la questione degli stretti, cioè la regolazione dei Dardanelli per l’accesso al Mar Nero. Non si trattava qui solo di una questione che interessava l’Impero russo e la Sublime porta, gli unici due stati con accesso diretto al mar Nero, perché l’Inghilterra era molto interessata a questo problema di libera navigazione di tutti i mari, oltre che ad arrestare la dilagante potenza zarista che aspirava da sempre ai mari caldi, come il Mediterraneo, accessibili soltanto attraverso il Bosforo. Una terza questione del pari delicata, perché di contenuto territoriale, riguardava i cosiddetti principati transdanubiani, cioè quelle terre (Valacchia, Bessarabia, ecc.) che nominalmente appartenevano tuttora all’Impero turco, ma su cui si esercitavano le attenzioni della Russia e dell’Impero austriaco. Come vedremo, fu proprio l’invasione da parte dei cosacchi di questi principati oltre il Danubio a determinare il casus belli contro la Russia. Da ultimo vi era la questione della libera navigazione sul Danubio e in genere dei principi della libera navigazione non solo fluviale, tema da sempre all’attenzione dell’Ammiragliato britannico che disponeva allora della più imponente flotta del mondo. Questi quattro punti furono riassunti in un promemoria delle cancellerie proprio sotto il nome di “questione d’Oriente” e costituirono la base politica dei successivi sviluppi militari. Si noti che lo zar, forse perché conscio della debolezza della propria posizione con l’invasione dei principati transdanubiani, assunse posizioni intransigenti e difficilmente giustificabili proprio a proposito della tutela dei pellegrini ortodossi nei luoghi santi, giungendo fino a esigere dalla Sublime porta il riconoscimento di un proprio protettorato su tutti gli ortodossi esistenti all’interno dell’Impero turco. Fu così che, a fronte dell’ultimatum delle potenze europee alla Russia, lo zar orgogliosamente non rispose sicché il 27-28 marzo 1854 si ebbe la dichiarazione di guerra di Londra e Parigi a San Pietroburgo. Non si è parlato finora se non di sfuggita della posizione turca perché in verità la Turchia era già in stato di guerra con la Russia dal momento dell’invasione dei principati transdanubiani (giugno 1853). C’erano già stati sviluppi militari importanti fra i due grandi imperi, fra cui una vittoria turca sul Danubio e la disfatta della flotta ottomana nella baia di Sinope (costa anatolica sul mar Nero), con gravi perdite dei turchi in uomini e navi. Ma quali erano le posizioni delle grandi potenze su questa importante svolta della politica europea, che stava uscendo dal trentennio di immobilismo dopo il congresso di Vienna del 1815? In Francia Napoleone III era da poco salito al trono con il colpo di Stato del 2 dicembre 1852, dopo essere stato per tre anni presidente della seconda Repubblica nata dalla rivoluzione del ’48. I sentimenti francesi verso la Russia erano tutt’altro che amichevoli, anche perché non era facile dimenticare l’invasione fallita di Napoleone nelle steppe russe, che aveva dato origine al crollo del grande Corso; in più, nel trentennio dopo il trattato di Vienna lo zar si era presentato come il principale sostenitore dell’autocrazia e il suo intervento a Vienna e Budapest nel 1848 per reprimere i moti dell’Impero austriaco ne costituiva l’ultima prova. Perciò, per un regime come quello di Napoleone III, fautore del principio di nazionalità e quindi avversario delle autocrazie, era evidente il desiderio di un assetto nuovo della politica europea. All’interesse di Londra per gli aspetti navali e marittimi della questione d’Oriente si è già accennato più sopra. Vale la pena di aggiungere un argomento, ignorato dagli storici di casa nostra ma ben presente nella storiografia d’oltre Manica. Da pochi anni si era conclusa, tragicamente per gli inglesi, la prima guerra anglo-afgana con un disastro da ritenere il più grande mai capitato a una potenza europea in una campagna coloniale. Nel 1842, infatti, un corpo di spedizione britannico di 6.000 uomini partito dalle basi nord dell’India e arrivato fino a Kabul, venne distrutto fino all’ultimo uomo dagli afgani. Ritornò soltanto un medico militare britannico, macilento, per raccontare la tragedia di tutti gli altri. All’epoca l’India non era ancora sotto il dominio diretto della Corona britannica, ma era gestita dalla famosa Compagnia delle Indie, nel cui consiglio d’amministrazione sedevano però i nomi più illustri dell’aristocrazia britannica. Nel corso della disastrosa spedizione a Kabul, successe che un drappello di cosacchi, alla guida di un giovane ufficiale russo, attraversò il territorio chiedendo addirittura ai colleghi ufficiali inglesi la strada per arrivare a Herat (nome che ancora oggi risuona nelle cronache). Si scoprì allora che la piccola spedizione russa doveva portare allo scià di Persia un messaggio dello zar che appoggiava le pretese persiane sull’intera provincia di Herat, confinante con l’Impero persiano. Quando la notizia giunse a Londra (ancor prima di quella sull’esito disastroso della spedizione), Lord Palmerston capì subito che si trattava dell’inizio di quello che, cinquant’anni dopo, Rudyard Kipling avrebbe battezzato «The Big Game», cioè la lotta mortale fra l’orso russo e il leone britannico per il possesso dell’India. È evidente perciò che negli anni Cinquanta del secolo questo motivo non era l’ultimo a spingere White Hall su posizioni antirusse. La posizione dell’Impero austriaco sulla questione d’Oriente era indubbiamente più sfumata e contraddittoria. Da un lato la Ball Platz non nascondeva il suo interesse sui principati transdanubiani, sulla scia di quel movimento verso l’oriente (Drang Nach Osten) tradizionale nella politica estera austriaca fin dal secolo XVIII. Dall’altro lato il giovane imperatore Francesco Giuseppe, che si era assunto la gestione diretta della questione, era fortemente imbarazzato rispetto allo zar Nicola I che solo pochi anni prima (1848) era intervenuto pesantemente con le sue truppe per reprimere i moti di Vienna e Budapest, salvando così il trono austriaco. Di conseguenza, risultava molto difficile, se non impensabile per Vienna, assumere una posizione contro la Russia. La Prussia, che stava ancora leccandosi le ferite del trattato di Olmutz che aveva segnato un’umiliazione nei confronti dell’Austria, voleva soltanto stare fuori dall’intera questione. La posizione dei due regni germanici risultò così del tutto defilata dall’alleanza principale franco-inglese, col risultato che nessun corpo militare austro-prussiano andò in Crimea anche se (per assurdo) fu proprio l’Impero austriaco a trarre effettivi vantaggi sul punto dei principati transdanubiani. Per arrivare a questa complessa composizione di interessi si dovette passare attraverso una serie di contatti e accordi, soprattutto fra Vienna e Parigi, di cui si ebbe un’eco in un celebre articolo apparso sul «Moniteur» del 22 febbraio 1854 che garantiva la solidarietà delle armi francesi all’Austria, non solo in oriente ma anche in Italia. Lo scritto suscitò gravi preoccupazioni a Torino, ove fu letto come un appoggio esplicito alla permanenza austriaca nel Lombardo-veneto e nei ducati padani, tanto che si chiesero chiarimenti ufficiali a Parigi. Fu qui che, probabilmente, Cavour cominciò a pensare alla questione d’Oriente non più come un affare di pertinenza solo delle grandi potenze europee, ma anche con riflessi che potevano risultare altamente pericolosi per il Piemonte. Se dobbiamo prestare fede al braccio destro del conte, il bravo Costantino Nigra, ci fu anche un episodio diretto che risvegliò l’attenzione del primo ministro. Durante un pranzo al famoso ristorante Il Cambio di Torino, dove era sempre riservato un tavolo al primo ministro, si presentò un giovane ufficialetto di artiglieria, di nome Domenico Farini, che con molta improntitudine snocciolò a Cavour il suo pensiero sulla questione d’Oriente. Forse per la sua innata simpatia verso i giovani, o forse perché egli stesso aveva prestato servizio militare nell’artiglieria, Cavour stette a sentire le parole del giovane Farini, certo non immaginando il futuro importante del giovane (che sarebbe poi divenuto addirittura presidente della Camera e del Senato e commissario straordinario per l’annessione dell’Emilia Romagna, che era la sua regione essendo lui modenese). Vi fu però un altro elemento decisivo nella questione e fu il colloquio con il ministro plenipotenziario della Corte di San Giacomo a Torino, Lord Hudson, che aveva fatto presente l’assoluta necessità dell’esercito britannico in Crimea di poter disporre di 10-15 mila «buone baionette» per rinsanguare le proprie file decimate dal colera (più che non dai cannoni russi). Occorre dire che questa prassi di acquisire soldati stranieri nell’esercito inglese non era affatto straordinaria e anzi tipica del pragmatismo britannico: naturalmente l’appoggio non sarebbe stato gratuito ma finanziato da Londra. Basti pensare alle diverse coalizioni anti-napoleoniche, i cui eserciti erano stati largamente e ufficialmente finanziati da Londra. Per le ragioni dette e soprattutto per il suo intuito politico, Cavour colse a volo l’occasione e rispose per iscritto a Londra (12-13 aprile 1854) chiarendo la disponibilità di Torino a fornire fino a 18 mila uomini alle condizioni precisate: non naturalmente al soldo degli inglesi, anche se un finanziamento era pur necessario per le spese di guerra, ma sotto forma di prestito, con indipendenza di comando e (soprattutto) con diritto del Piemonte a partecipare alle trattative di pace. Occorre aggiungere a quanto detto che in quel 1854 le preoccupazioni di Cavour erano ben altre. Eletto primo ministro da due anni, si era trovato alle prese con le disastrose condizioni finanziarie del Piemonte, dopo le spese per la Prima guerra di indipendenza, e si era gettato a corpo morto nell’opera di ministro delle Finanze, da un lato rinegoziando le onerose condizioni dei prestiti inglesi della banca Rotschild e dall’altro cominciando a impiantare un fisco moderno. Poi c’era il macigno delle leggi eversive o sulla manomorta con cui i maligni dicevano che il Governo volesse farsi pagare i debiti di guerra coi soldi delle proprietà ecclesiastiche. Era stata una battaglia parlamentare durissima, durata sei mesi, ove il primo ministro si era visto contro non solo gli avversari politici e alcuni del suo partito (il famoso “Connubio” con Urbano Rattazzi) ma tutte le organizzazioni cattoliche, compresi intellettuali del calibro di Antonio Rosmini. Addirittura il fratello di Cavour, marchese Gustavo, grande amico di Rosmini e di Manzoni, aveva votato contro in Senato, dopo un discorso ove era facile riconoscere i suggerimenti del grande abate di Rovereto, la cui fama filosofica lo stesso marchese Gustavo aveva diffuso in Europa con un articolo sulla «Revue des Deux Mondes». Un ultimo riflesso di questa questione «di frati e di preti» (come diceva Cavour) si ebbe nella crisi del dicembre quando il re Vittorio Emanuele, che aveva pienamente sposato l’idea di una partecipazione piemontese vista come rivincita d’armi dopo Novara, minacciò apertamente il suo primo ministro di sostituirlo se non fosse riuscito a concludere rapidamente gli accordi per la spedizione. Il collegamento con le leggi eversive è dato dal fatto che il re fece sapere alla stampa di avere convocato a palazzo un alto prelato, latore di un’offerta per temperare gli effetti delle leggi eversive, e insieme il conte Thaon di Revel (nonno dell’ammiraglio che avrebbe guidato la flotta italiana nella Prima guerra mondiale), esponente del partito fedele al re e designato primo ministro nel caso in cui Cavour non fosse riuscito a risolvere il problema. Il quale problema era realmente molto complicato perché Londra rispose positivamente all’offerta del contingente militare ma negativamente sulla questione che stava più a cuore a Cavour, cioè la presenza e la partecipazione alle trattative di pace. Occorre ricordare che il trattato di Vienna del 1815, nel dare un nuovo assetto stabile all’Europa post-napoleonica, aveva stabilito regole formali molto precise per i rapporti fra le grandi potenze (Austria, Prussia, Russia, Inghilterra, Francia) alle quali spettava il diritto di interloquire su ogni problema politico europeo. Le potenze minori invece, fra cui rientrava sicuramente il Piemonte, potevano al più interloquire su questioni che le riguardassero direttamente, ma non potevano certo pretendere di sedere allo stesso tavolo e con eguali poteri delle grandi potenze. Per superare questa grossa difficoltà servì l’appoggio formale di Napoleone III il quale cominciò da qui a manifestare la sua evidente simpatia per la causa d’Italia, che avrebbe trovato poi ben più ampio spazio nella Seconda guerra di indipendenza. Degli altri punti relativi alle condizioni per l’adesione del Piemonte, quello relativo al comando delle forze piemontesi restò nel vago, anzi con un equivoco perché il generale Alfonso Lamarmora, designato subito da Cavour come comandante del contingente, attraverso contatti con lo Stato maggiore francese, si era convinto che le proprie forze sarebbero state aggregate a quelle di Napoleone III (impressione probabilmente favorita dalla lingua comune, essendo notorio che in Piemonte si parlava correntemente il francese). D’altronde la questione del comando dell’intero corpo di spedizione alleato rimase parimenti nel vago, perché francesi e inglesi erano indipendenti fra di loro, anche se concertavano le diverse mosse sul terreno. Quanto al finanziamento, Cavour trattò direttamente un prestito di due milioni di sterline con la banca Hambro al 3%, volendo svincolarsi dai Rotschild che invece avevano finanziato la Prima guerra d’indipendenza. Questo prestito fu assunto poi dallo Stato italiano che terminò il pagamento nel 1902. Il discorso di Cavour in Parlamento, ove si discuteva appunto dell’autorizzazione ad accendere il mutuo con gli inglesi (non si discuteva direttamente della guerra, perché per lo Statuto albertino questa era una prerogativa del re), il 6 febbraio 1855 fu all’altezza della fama. Il primo ministro assegnava alla guerra il compito di mostrare all’Europa come i figli d’Italia (si noti, non del Piemonte) sapessero combattere da valorosi sui campi della gloria nella certezza che in tal modo avrebbero giovato al Paese più di tutte le congiure e i moti incomposti del passato e più di coloro che finora avevano operato soltanto con declamazioni o scritti. L’accenno critico alle posizioni del partito repubblicano e di Mazzini era più che evidente. La votazione del 10 febbraio 1855 alla Camera diede 101 voti favorevoli e 60 contrari a scrutinio palese. Il regolamento consentiva, per gli argomenti più delicati, anche la richiesta di voto a scrutinio segreto: il risultato fu quasi analogo (95 sì e 64 no). Al Senato il passaggio fu più semplice anche per la ragione che un terzo dei senatori era di nomina regia e tutti conoscevano il parere decisamente favorevole del re nei confronti della spedizione in Oriente. Questa fu indubbiamente una grande vittoria parlamentare dell’ostinazione di Cavour che superò brillantemente le molte difficoltà collegate con il varo della spedizione. Si può aggiungere che la posizione di Mazzini era stata pesantemente negativa. Sul giornale «Italia e Popolo» apparve una lettera indirizzata al conte di Cavour con parole molto pesanti. Mazzini parlava di «abdicazione morale dell’unico principato su cui potevano fondarsi le speranze italiane» e proseguiva dicendo che «si è mercanteggiato l’onore e la vita dei soldati e della Nazione». Carlo Cattaneo, di sentimenti mazziniani ma certamente dotato del buon senso lombardo, commentò questa posizione di Mazzini con una frase significativa: disse che Mazzini «reputa vittorie anche i disastri purché in qualche modo si combatta». Garibaldi invece era logicamente su posizioni diverse e molto vicine a quelle del primo ministro. All’amico Valerio, in una lettera del novembre ’54, scrisse: «È bene ricordare ogni giorno ai nostri vicini come noi sappiamo menare le mani e come le meneremo nelle nostre faccende», e poi ancora: «Spero di gettare il mio granellino nell’edificio italiano». Propose addirittura al re di unire al contingente in partenza da Genova altri 10 mila uomini da sbarcare in Sicilia – chiaro preannuncio della spedizione dei Mille di qualche anno dopo. A cose fatte (febbraio 1857) scrisse a Jesse White Mario: In Piemonte vi è un buon esercito di 40.000 uomini e un re giovane e ambizioso. Quelli sono elementi di iniziativa e di successo a cui crede oggi la maggioranza degli italiani. Che l’amico vostro [Mazzini] ci mostri lo stesso e un po’ più di buon senso che non ebbe per il passato e noi lo benediremo seguitandolo con fervore. Che altri si accinga alla santa guerra, ma non con insurrezioni da ridere e voi troverete il vostro fratello che vi scrive sui campi di battaglia. Si trattò a questo punto di costituire il contingente piemontese sotto la guida del generale Lamarmora, come si è detto. Furono scelte forze delle guarnigioni ultra montane, Savoia e Aosta, nonché altri reggimenti dell’esercito, oltre a otto reggimenti di bersaglieri sotto la guida del loro creatore, cioè Alessandro Lamarmora, fratello del comandante in capo (che sarebbe morto di colera in Crimea). Oltre alle brigate Savoia (1º e 2º rgt. ftr.) e Aosta (5º e 6º rgt. ftr.) si ebbero il 9º e 10º (brigata Regina) e l’11º e 12º (brigata Casale) e un reggimento di cavalleria composto da squadroni tratti da Novara, Aosta e Saluzzo e 3 bgt. di artiglieria da campagna con 36 pezzi. A ciò dovevano aggiungersi 2.000 marinai per le navi sardo-piemontesi, anche se la maggior parte dei trasporti erano navi inglesi fornite dall’ammiragliato britannico. La partenza avvenne dal porto di Genova ai primi di maggio del 1855 e il convoglio seguì due rotte diverse. Le navi piemontesi costeggiarono l’Italia fino a Messina per attraversare poi lo stretto; le navi inglesi invece circumnavigarono la Sicilia dirette a Malta, grande base della Home Fleet. Poi tutti si diressero attraverso l’Egeo fino a Costantinopoli, prima tappa di riunione della flotta. Il viaggio durò due settimane e per la gran parte dei soldati piemontesi, che scendevano dalle montagne innevate e probabilmente non avevano mai visto il mare, si trattò di un’esperienza notevole. Quando i piemontesi arrivarono sul Bosforo, molte cose erano già successe nell’anno di guerra trascorso Per quanto può interessare qui, si può ricordare la grande battaglia del fiume Alma del 20 settembre 1854 (che gli inglesi chiamano battaglia di Balaklava) ove si ebbe l’episodio famoso del 92º Highlander scozzese con la «sottile linea rossa» cioè con lo schieramento dei fucilieri britannici su due sole file, la prima in ginocchio e la seconda in piedi, che riuscirono ad arrestare l’impeto delle truppe russe del principe Menscikoff. I francesi completarono l’opera con la loro fanteria, formata per lo più da truppe coloniali (la prima divisione dei Tirailleurs d’Algerie, quelli che nel ’59 sarebbero stati chiamati da noi gli Zuavi, e la seconda divisione di Goumiers tunisini e marocchini). A proposito della cavalleria, si devono ricordare i reparti francesi (Chasseurs d’Afrique montati su piccoli cavalli berberi), mentre gli inglesi avevano due formazioni destinate a entrare nella leggenda, la brigata pesante e soprattutto la brigata leggera (quella della carica dei 600). L’artiglieria era molto presente e sviluppata, particolarmente quella francese dotata di pezzi da campagna e d’assedio a canna rigata, quindi con maggiore precisione di tiro e penetrazione dei proietti. Al comando del contingente britannico c’era un personaggio, Lord Raglan, con un glorioso passato al servizio del duca di Wellington, che aveva perduto un braccio nella battaglia di Waterloo. Di conseguenza si faceva confezionare divise non con le maniche strette degli altri ufficiali, ma con le maniche di foggia più ampia, passate alla storia della moda col nome di maniche alla raglan. Altro personaggio di spicco era Lord Cardigan, al comando della brigata leggera di cavalleria, protagonista del famoso episodio della carica dei 600. Anch’egli è passato alla storia della moda per i maglioni a maniche lunghe abbottonati sul davanti che indossava nei momenti di riposo, chiamati anche oggi “cardigan”. Vale la pena di ricordare solo in breve il più celebre episodio della carica di cavalleria nella valle della Morte di Balaklava (25 ottobre 1854), cantata nei versi della ballata di Alfred Tennyson che tutti gli scolari britannici da allora studiarono a memoria. Si tratta di un episodio narrato in centinaia di libri e film, dovuto all’errore di interpretazione di un ordine poco chiaro, con la conseguente carica dissennata della brigata leggera (XVII Lancieri, IV Dragoni leggeri, II Dragoni, I Dragoni reali e XI Ussari, guidati da Lord Cardigan) contro le batterie di cannoni russe. Su circa 700 uomini che parteciparono alla carica, le perdite furono di oltre 500. Un ufficiale della cavalleria francese che assisteva da lontano disse la celebre frase: «C’est magnifique, mais n’est pas la guerre». Lamarmora, a bordo della nave piemontese “Governolo”, entrò nel porto di Balaklava l’8 maggio del 1855 e subito simpatizzò con il comando inglese, col quale i rapporti dovevano essere molto più stretti che non con i francesi. Il comandante piemontese fece ottima impressione a Lord Raglan che in una lettera alla moglie lo definì «un bel vecchio di nobile e degno carattere». Il contingente sardo cominciò ad attrezzarsi per l’accantonamento ed ebbe modo di ammirare l’organizzazione dell’Intendenza francese che disponeva addirittura di baracche prefabbricate. Occorre dire che la guerra di Crimea fu la prima a divenire oggetto di reportage fotografici. Il giornalista Roger Fenton del Times scattò oltre 600 lastre riprendendo molti aspetti del conflitto, e queste immagini sono ancor oggi perfette e molto precise nella documentazione. Un altro elemento di modernità fu l’uso del telegrafo. Napoleone III, una volta tramontata la sua idea iniziale di partecipare direttamente alle operazioni belliche, si fece impiantare una linea telegrafica collegata da Parigi a un monastero vicino a Balaklava, e così poté seguire direttamente le operazioni tempestando di telegrammi i poveri comandanti francesi (prima il generale Canrobert e poi il rude Pélissier detto “l’Africain” perché si era guadagnato larga fama di efficienza e crudeltà nella conquista d’Algeria del 1830. I due saranno nominati marescialli al termine del conflitto). Un’ultima innovazione che comparve sui campi di battaglia per la prima volta fu quella delle navi corazzate. Furono i francesi a rivestire le fiancate di alcuni loro piroscafi, a vela e vapore, con lastre di ferro a riparo dalle cannonate e dagli speronamenti. Pochi anni più tardi, durante la guerra civile americana, il principio delle navi corazzate avrebbe avuto ben altro sviluppo. Lamarmora e il corpo di spedizione piemontese (che gli inglesi chiamavano in realtà “sardo” com’era giusto, posto che il titolo di Vittorio Emanuele era “Re di Sardegna”) erano ansiosi di avere il battesimo del fuoco, per il quale dovettero aspettare tre mesi. Dopo la battaglia dell’Alma il comando alleato capì che occorreva cingere d’assedio Sebastopoli, fortezza munita di potenti bastioni e difesa da centinaia di pezzi d’artiglieria. Tuttavia non c’erano uomini sufficienti per circondare in ogni parte la fortezza, sicché le trincee d’assedio furono scavate da due lati soltanto, quello inglese e quello francese, cui era annesso il contingente turco, alla guida di Enver Pascià. Nel frattempo i russi, che subivano perdite gravissime per gli incessanti bombardamenti dell’artiglieria alleata, decisero di fare una sortita in massa per alleggerire la pressione, sotto la guida del principe Gorchakov, comandante in capo. Fu così che, avuto notizia dei preparativi nemici, gli alleati assunsero uno schieramento difensivo a cavallo del torrente Cernaja, varcato da un ponte in pietra in località Traktir (che secondo i francesi diede il nome allo scontro, noto da noi come “della Cernaja”). Lamarmora dispose un avamposto oltre il torrente, difeso da un battaglione di formazione, composto da elementi del 9º, 15º, 16º rgt. di fanteria al comando del maggiore Corporandi, e poi un cospicuo rinforzo con i bersaglieri dietro il corso d’acqua. Il 16 agosto le due ali dell’esercito zarista, guidate dai generali Read e Liprandi e forti di 18 mila uomini, si mossero verso il fiumiciattolo che deve il nome alle sabbie nere del suo letto (Cernaja è il femminile di Cern, nero). L’avamposto resistette finché poté e poi si ritirò ordinatamente nelle linee, ma quando i russi furono investiti dal fuoco dell’artiglieria francese e piemontese i bersaglieri passarono al contrattacco con uno slancio e un ordine tattico che impressionò anche W.H. Russell, corrispondente del «Times», che ne parlò espressamente sul giornale. Nel contrattacco caddero il generale conte Gabrielli di Montevecchio, che comandava una delle due brigate impegnate, il tenente Biaggini (del 15º) e il sottotenente Andreis (del 9º), mentre tra i feriti ci fu il maggiore Raffaele Cadorna, futuro conquistatore di Porta Pia. I reggimenti russi si ritirarono con gravissime perdite (dovute soprattutto al fuoco devastante dell’artiglieria) mentre da parte piemontese si ebbero una trentina di morti (fra cui un generale e due ufficiali) e un centinaio di feriti. L’eco di questo fatto d’armi a Torino fu assolutamente sproporzionato al suo reale contenuto bellico. Questo scontro di avamposti, o poco più, infiammò la stampa e la società piemontese. Cavour scrisse una lettera osannante alla contessa Lamarmora, ove trascrisse il telegramma, per vero molto equilibrato, del comandante in capo («il telegrafo vi dirà se i piemontesi sono degni di battersi al fianco dei francesi e degli inglesi»). Il primo ministro scrisse poi al generale, riferendogli i complimenti di tutti e del re (definito da lui «enchentè»). A questo punto, dopo il ritiro dei russi sconfitti (dai franco-piemontesi) alla Cernaja, il comando inter-alleato (ma soprattutto il generale Pélissier, dopo la morte di Lord Raglan per colera) decise l’attacco decisivo ai forti di Sebastopoli a cominciare dal 5 settembre, dopo una lunga preparazione di artiglieria. Stavolta i piemontesi di Cialdini erano aggregati agli inglesi e dovevano intervenire in seconda schiera dopo la presa del bastione Inkerman, mentre i francesi assaltavano il ridotto Malakov. Tre giorni durò il terribile bombardamento alimentato dalle oltre 800 bocche da fuoco alleate, con perdite spaventose fra i difensori (come testimoniato, fra gli altri, dal giovane tenente dell’artiglieria russa Lev Nikolàevič Tolstoi nel suo bellissimo Racconti di Sebastopoli, ove il futuro grande scrittore fece le prove delle grandi scene belliche che avrebbe dipinto in Guerra e pace). Ma mentre i francesi, pur a prezzo di gravi perdite, riuscirono a piantare il Tricolore sugli spalti, l’attacco inglese fallì e così Cialdini e i suoi restarono nelle trincee di partenza. Dopo la caduta di Sebastopoli, o meglio delle fortificazioni e bastioni antemurali, perché la città rimase in mano russa ancora per mesi, la guerra subì un rallentamento totale e nulla più di importante successe se non forse una spedizione anfibia anglo-francese nella parte retrostante della penisola di Crimea. Si giunse così all’armistizio nel marzo 1856, mentre il 25 febbraio si era aperta a Parigi la conferenza di pace, il vero traguardo della politica cavouriana. Le modalità con cui si giunse alla pace allarmarono moltissimo il Governo di Torino perché l’Austria che si era tenuta rigorosamente fuori dalle operazioni belliche in Crimea, utilizzando a proprio favore una clausola ambigua dell’alleanza, si fece parte diligente verso lo zar mandando un proprio ambasciatore con le proposte di pace. Il nuovo zar Alessandro II, succeduto al padre Nicola I (morto di morte naturale nel frattempo), accettò le condizioni imposte e permise al ministro plenipotenziario austriaco di tornare trionfante a Vienna con in mano la pace. Cavour temeva così che l’Austria, la quale con grande opportunismo si era esclusa dalla guerra, potesse ora presentarsi nel concerto delle grandi potenze con un ruolo ancor più importante. Il congresso di pace costituì la vetrina del III Impero e fece di Parigi la città più importante del mondo. Il 16 marzo 1856 le batterie di Parigi spararono 101 colpi di cannone in onore del piccolo Napoleone Eugenio, erede di Napoleone III, mentre all’Opera trionfava La Favorita di Donizetti, con i più celebri cantanti italiani dell’epoca. Le grandi Avenues di Parigi, aperte dai giganteschi lavori del barone Haussmann, furono battezzate con i nomi delle grandi vittorie della Crimea: Sebastopoli, Alma, Malakoff e Bosquet (il generale conquistatore del bastione Malakoff, poi nominato maresciallo). Sulle prime Cavour non era convinto di partecipare di persona al congresso di pace e pensò di affidare l’incarico a Massimo d’Azeglio il quale per altro rifiutò sdegnosamente (erano noti i pessimi rapporti fra il gentiluomo scrittore e pittore e il conte, che il primo definiva correntemente «il mio sleale avversario»). La parte del Piemonte nel congresso di pace era, in ogni evidenza, molto piccola e infatti Cavour ebbe poco spazio per intervenire sulle questioni oggetto del trattato di pace, dal problema dei principati ultra danubiani alla navigazione negli stretti e nel mar Nero, alla difesa dei pellegrini cristiani a Gerusalemme. La Russia era rappresentata da un personaggio leggendario, il conte Andrej Orlov, consigliere dello zar Alessandro e discendente del suo famoso antenato, favorito della zarina Caterina di Russia e conquistatore della Crimea. Il conte Orlov, alto quasi due metri, rappresentava bene l’idea dell’orso russo, l’immagine con cui si raffigurava la Russia zarista. L’Austria era rappresentata dal conte Buol che, come diceva Cavour, «per fortuna è molto antipatico a tutti» e in particolare al rappresentante russo che diceva: «Guardate costui, parla come se fossero stati i soldati austriaci a conquistare Sebastopoli!». I risultati finali del congresso di pace furono modesti, tanto da giustificare l’opinione di molti storici sulla sostanziale inutilità della sanguinosissima guerra di Crimea. Peraltro, secondo altri, quella guerra fu la cosa più simile a una guerra mondiale europea mai verificatasi fino ad allora. Mentre Cavour fremeva, le giornate del congresso volgevano alla fine e si era ben lungi dal poter introdurre il discorso sull’Italia che tanto stava a cuore al primo ministro di Torino. Nell’ultimo giorno del congresso, l’8 aprile 1856, il presidente conte Walevski, ministro degli Esteri francese, disse all’assemblea che era il caso di trattare gli argomenti residui (qualcosa di simile alle «varie ed eventuali» che leggiamo sempre negli ordini del giorno delle assemblee). Prese per primo la parola Lord Clarendon, rappresentante della Corte di San Giacomo, il quale fece una grande tirata contro il Regno di Napoli e il suo regime carcerario definito «vergogna d’Europa», espressione che tornerà nella pubblicistica risorgimentale. Inoltre il rappresentante di Sua Maestà britannica si scagliò contro l’Austria per i presidi militari da essa mantenuti nei ducati padani (Modena, Reggio, Piacenza, ecc.) malgrado, secondo i princìpi del congresso di Vienna, avrebbero dovuto essere rimessi sul trono i legittimi regnanti. Le parole del rappresentante inglese suonarono dolcissime alle orecchie del conte di Cavour che, quando fu il suo turno, espose le ragioni del Piemonte in termini più pacati: minaccia militare austriaca col corpo d’armata mantenuto in armi sul confine del Ticino, questione dei ducati padani e questione del sequestro dei patrimoni dei patrioti lombardo-veneti emigrati a Torino dopo il ’49. L’intervento del ministro austriaco Buol fu abbastanza fiacco perché, dopo aver eccepito che non si poteva trattare di questioni relative agli assenti, come il Regno di Napoli, rispose a Cavour che le precauzioni militari sul Ticino erano ben giustificate da quello che era successo sette anni prima, mentre si stupiva di sentir parlare di guarnigioni straniere in Italia in un luogo come Parigi che manteneva una sua guarnigione a Roma fin dal 1849. Così finì questa breve seduta il cui resoconto diede origine a un’ultima contestazione sollevata dal rappresentante austriaco il quale diceva che non valeva la pena di prendere nota di queste considerazioni, neppure all’ordine del giorno. Una volta di più Cavour dovette dire grazie agli inglesi perché Lord Clarendon si alzò sdegnato dicendo di non avere mai sentito che le parole pronunziate da un gentiluomo in rappresentanza di Sua Maestà britannica non fossero degne di essere annotate. Così fu stesa quella mezza paginetta di verbale ove erano concentrate tutte le speranze del Piemonte. Cavour si rese subito conto degli scarsi risultati che poteva portare a Torino e disse al fedele Costantino Nigra: «Abbiamo fatto quello che potevamo». La risposta del collaboratore fu molto più illuminata: non solo il conte aveva fatto quello che poteva, ma aveva fatto parlare del problema italiano in tutta Europa e soprattutto aveva rinsaldato i vincoli d’amicizia con Napoleone III. Quando andò in Parlamento a dare notizia sugli esiti del congresso di pace, Cavour fu naturalmente più eloquente sottolineando da un lato la bella prova militare (pur senza i fanatismi che erano nati a Torino) ed evidenziando il ruolo preparatorio dell’intervento nella questione d’Oriente in vista di sviluppi futuri. Forse si può dire qualcosa di più, col senno di poi. Dal diario di un giovane sottotenente della brigata Aosta apprendiamo questo bell’episodio. Durante il viaggio per mare, all’altezza dello Stretto di Messina, un giovane trombettiere della brigata corse sottocoperta a prendere il suo strumento col quale intonò la Marcia Reale, fra lo stupore dei presenti. Qualcuno gli chiese perché mai si fosse messo a suonare e il trombettiere candidamente rispose che voleva far sentire anche agli italiani di quaggiù (disse proprio così) la nostra marcia reale perché anche loro potessero conoscere e apprezzare il nostro re galantuomo. La risposta, nella sua ingenuità, ha valore perché mostra che la spedizione in Oriente aveva contribuito a far sorgere nell’animo dei valligiani di Aosta il barlume di un senso unitario di appartenenza nazionale. In questi termini (e solo in questi termini) Cavour non era poi così distante da Mazzini.

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