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La Prima Guerra d'Indipendenza (Capitolo terzo)

Intanto Ferdinando di Borbone si adoperava a fare il liberale a Napoli (lo abbiamo visto con il suo proclama nella precedente puntata), sorvegliava la condotta di Carlo Alberto, non rompeva i ponti con l'Austria, ed osservava attentamente gli avvenimenti della Sicilia. A Palermo, il 25 marzo del 1848, nella chiesa di S. Domenico, presenti il Senato, la Suprema Corte di Giustizia, moltissimi ufficiali dell'esercito, della marina e della Guardia nazionale, numerosi vescovi, arcivescovi, abati e parroci, il corpo diplomatico e consolare e una grandissima folla, dopo la funzione divina, al rombo delle artiglierie che sparavano dalle navi e dai forti di Castellammare e della Garitta, si era aperto il Generale Parlamento di Sicilia, quindi si era costituito il governo con un presidente e sei ministri eleggibili dallo stesso presidente.

Alla presidenza era stato chiamato Ruggiero Settimo, il quale aveva messo agli affari esteri e al commercio Mariano Stabile, alla Guerra e Marina il barone Riso, alle Finanze Michele AMARI, all'Istruzione e ai Lavori il principe di Butera, al Culto e alla Giustizia GAETANO PISANI e alla direzione della Polizia PASQUALE CALVI. Il 1° aprile il Parlamento Siciliano ordinava che: "il Potere Esecutivo dichiarasse in nome della nazione agli altri Stati d'Italia che la Sicilia già libera ed indipendente intendeva far parte dell'unione e federazione italiana" e il 13 aprile decretava che la dinastia borbonica era per sempre decaduta dal trono di Sicilia, che l'isola si sarebbe governata costituzionalmente e che, dopo la riforma dello Statuto, sarebbe stato chiamato sul trono un principe italiano. FERDINANDO II protestò, il 18 aprile, contro questo decreto; ma il parlamento siciliano non tenne in nessun conto la protesta e attese alla riforma dello Statuto, che fu molto simile a quello degli altri Stati della penisola. Differiva però da questi in vari punti: difatti vi era stabilito che… "il sovrano chiamato a reggere la Sicilia non poteva, pena la decadenza, di regnare su altri paesi; che la sovranità risiedeva nell'universalità dei cittadini; che il potere di fare leggi e di interpretarle apparteneva esclusivamente al parlamento; che il voto era universale; che al re era negata la facoltà di sciogliere o sospendere le assemblee e che i trattati non avevano effetto senza l'approvazione dei due rami del parlamento".

Riformata la costituzione, furono mandati ambasciatori alle corti di Roma, di Firenze, e di Torino per ottenere il riconoscimento del Regno di Sicilia, promuovere qualunque forma di lega utile all'indipendenza italiana e vedere quale delle due corti della Toscana e della Sardegna fosse meglio disposta ad inviare un principe sul trono dell'isola. Napoli intanto "poteva dirsi in piena anarchia, poiché ogni freno era rotto ai desideri più audaci e alle passioni più torbide. Alle confuse notizie di Parigi, la parola costituzione andava prendendo significati e sviluppi inattesi, non tanto nella metropoli dove, per la povertà delle industrie, mancava un numeroso artigianato, quanto nelle campagne dove i contadini, guadagnati alla causa della rivoluzione, tentavano apertamente di scavalcare i proprietari che l'avevano promossa e, non rispettando più né i vecchi né i nuovi istituti tra loro in lotta violenta, rifiutandosi di pagare le tasse, invadevano le terre signorili e demaniali, minacciavano la guerra sociale. D'altra parte, nella metropoli, il ceto medio, costituito in massima parte da impiegati, di professionisti e di letterati, divisi e suddivisi da ambizioni e animosità personali, in infinite tendenze diverse, nel trapasso dalla dinastica costituzione a quella repubblicana unitaria, dava la caccia ai pubblici uffici, di cui il numero era straordinariamente cresciuto; si agitava nei circoli, inveiva nelle gazzette, tumultuava nelle piazze ora contro i gesuiti che dovettero essere espulsi, ora contro l'Austria e per la partecipazione alla guerra, ora contro questo o quel ministro per la riforma dello Statuto, vale a dire per l'abolizione della Camera dei Pari e del censo stabilito per l'elettorato. Intanto le finanze pubbliche andavano alla rovina, poiché il prestito forzoso di tre milioni di ducati ne aveva raccolti appena 7000 mila ! Così, nel generale disgusto, riprendevano coraggio i legittimisti, appoggiati alla Corte, all'esercito e alla plebe, ma anche dall'altra parte, si facevano più arditi i democratici, i partigiani della guerra ad ogni costo, i sospettosi del Re e dei moderati, ma non del tutto tranquilli neppure di fronte a coloro che avrebbero voluto imitare in Napoli le gesta dei rivoluzionari parigini" (Lemmi).

Tra il 18 aprile e il 2 maggio si fecero le elezioni politiche e la grande maggioranza dei seggi fu conquistata dai liberali. Di lì a qualche giorno, mentre si diffondeva la notizia dell'allocuzione papale del 29 aprile, si dimisero tre ministri: l' IMBRIANI, il RUGGERO e il MANNO, i quali, non credendo alla sincerità del Borbone, non volevano nelle sue mani essere gli strumenti di un'ipocrita politica. L'apertura del Parlamento fu fissata per il 15 maggio.

LA GIORNATA DEL 15 MAGGIO A NAPOLI

Il 13 FERDINANDO lanciava questo proclama: "L'apertura del Parlamento nazionale essendo l'atto più solenne della vita politica di un popolo, non c'è da meravigliarsi se nel suo avvicinarsi, tutte le passioni si esaltano e si agitano, e se i nemici della libertà, d'accordo con i nemici dell'ordine, spargano voci sconfortanti e perturbatrici, ed alterando la pace interna rendano un involontario servizio ai nemici d'Italia. Il governo, incaricato di tutelare le legali libertà e l'indipendenza nazionale, crede in quest'occasione di assicurare i buoni, che sarà più che mai fermo nella politica annunciata nel suo programma e professata costantemente in tutti i suoi atti. L'idea dell'indipendenza italiana, è l'idea predominante del ministero, come dev'essere ed è in effetti quella di tutti i buoni Italiani e di tutti i veri e sinceri amanti della patria. Le faziose macchinazioni, non sono che di pochissimi. Costituito il Parlamento, i desideri della nazione saranno legalmente soddisfatti e le sarà assicurato il suo vero progresso civile e politico. E che sia questo il desiderio del governo medesimo, lo ha mostrato il programma sopra citato, quando annunciava lo svolgimento dello Statuto da farsi dal potere costituito, massime per la parte che riguarda la Camera dei Pari, la quale composta di uomini additati con il maggior numero dal suffragio, ha realmente indizio di fiducia pubblica da non lasciar dubitare che concorrerà alacremente alle utili riforme".

Nel giorno stesso in cui era lanciato questo proclama, nel "Giornale Costituzionale" si annunciava la nomina di cinquanta Pari e si davano le disposizioni per l'apertura del Parlamento che doveva avvenire il giorno 15 maggio nella chiesa di San Lorenzo.

La vigilia della cerimonia, nelle sale comunali di Monte Oliveto, si raccolsero in seduta preparatoria, i deputati presenti a Napoli sotto la presidenza del CAGNAZZI. La formula del giuramento, che il giorno dopo doveva esser prestato dal sovrano e dai deputati, fu il primo argomento di discussione. Dopo accese discussioni l'assemblea, ritenendo insufficiente la seguente formula decretata per i deputati: "Io giuro di professare, e di far professare la religione cattolica apostolica romana; giuro fedeltà al Re del Regno delle due Sicilie; giuro di osservare la costituzione concessa dal re il 10 febbraio", stabilì di modificare la formula vecchia in una nuova in cui si giurasse di "osservare, e mantenere lo Statuto politico della Nazione con tutte le riforme e le modifiche stabilite dalla Rappresentanza nazionale, massimamente per ciò che riguardava la Camera dei Pari".

Questa formula fu inviata al ministero il quale l'accettò e la sottopose all'approvazione del re; ma Ferdinando la rifiutò e respinse nello stesso tempo le dimissioni date dai ministri. "La concitazione degli animi - "scrive il Settembrini nelle Ricordanze" - era grande e cresceva ad ogni ora, e pareva il montare della marea. I deputati raccolti nella gran sala di Monte Oliveto, consigliavano, parlavano, mandavano messaggi al Ministero e il ministero mandava ora questo ora quel ministro ai deputati con una nuova formula che però non era accettata. Nelle vie tutti parlavano, discutevano, ed era un andare, un venire, e talora grida e minacce".

Fu impartito allora l'ordine alle truppe di uscire dalle caserme e di occupare le piazze e i punti strategici della città; ma la presenza dei soldati parve una provocazione e i più arrabbiati dei cittadini risposero erigendo numerose barricate. FERDINANDO II, di fronte al contegno minaccioso dei liberali nella notte dal 14 al 15 maggio, comunicò ai deputati una nuova formula cosi concepita: "Prometto e giuro innanzi a Dio fedeltà al re costituzionale Ferdinando II. Prometto e giuro di compiere con il massimo zelo e con la massima probità ed onoratezza le funzioni del mio mandato. Prometto e giuro di essere fedele alla costituzione quale sarà svolta e modificata dalle due Camere d'accordo con il re, massimamente intorno alla Camera dei Pari, come è detto nell'articolo V del programma del 3 aprile".

I deputati accettarono la formula e la mattina del 15 fu lanciato alla cittadinanza il seguente manifesto: "La Camera dei Deputati, provvisoriamente riunita, reputa suo debito di rendere quelle grazie ché può maggiori alla gloriosa e intrepida guardia nazionale di questa città e a questo generoso popolo per la dignitosa e civile attitudine che hanno preso per tutelare e garantire la nazionale rappresentanza. Ma essendo l'intento, che tendeva al maggior benessere della Nazione, stato pienamente conseguito, -essa crede dover invitare la guardia nazionale a far scomparire dalla città ogni ostilità con il disfare le barricate, in modo che si possa inaugurare l'atto solennissimo dell'apertura del Parlamento, senz'alcuna, sebbene gloriosa, pur spiacevole ricordanza".

Ma questa voce della Camera non fu ascoltata e l'agitazione saliva, fomentata dai più esaltati, specie da GIOVANNI LA CECILIA, il quale diceva che non si doveva cedere se prima il re non aboliva la Camera dei Pari e non consegnava i castelli della Guardia nazionale. A nulla valse un'ordinanza del sovrano che fissava per le due pomeridiane di quel giorno l'apertura del Parlamento e confermava la formula concordata con i deputati; a nulla valsero le parole del generale della Guardia GABRIELE PEPE che esortava i cittadini armati a tornare alle loro case; gli animi oramai erano troppo infiammati e ad eccitarli ancora di più si spargeva la voce che dalle province marciavano sulla capitale schiere di guardie nazionali per difendere l'assemblea dei rappresentanti. Due fucilate, sparate verso il mezzogiorno, presso la chiesa di S. Ferdinando, furono come il segnale della lotta. Sulla reggia fu issata la bandiera rossa e subito le artiglierie cominciarono a tuonare dai fortini, mentre altri pezzi fulminavano diciassette barricate innalzate nella sola via Toledo e altre sessantadue nelle altre strade.

Parecchi palazzi, fra cui quello Gravina, furono distrutti, le truppe svizzere e le napoletane, guidate quest'ultime dal maggiore NUNZIANTE e da RAFFAELE CARASCOSA, fratello del generale, protette dai cannoni dei fortini e affiancate da alcune batterie da campagna, diedero l'assalto alle barricate, le espugnarono una dopo l'altra, quindi assalirono le case sospette, che più tardi furono saccheggiate dalla plebaglia (chissà da chi ingaggiata) che percorreva le vie della città al grido di "Viva il re ! Mora la Nazione !".

Non si seppe mai il numero dei morti di quella terribile giornata: chi disse duecento, chi duemila. Fra questi il giovine LUIGI LA VISTA, discepolo del DE SANCTIS. I prigionieri furono seicento, fra i quali FRANCESCO DE SANCTIS, DOMENICO MORELLI, PASQUALE VILLARI. All'inizio della lotta i deputati riuniti a Monte Oliveto avevano costituito un comitato di salute pubblica, presieduto dal venerando CAGNAZZI e formato dei deputati ZUFFETTA, GIARDINI, BELALLI, LANZA, PETRUCELLI. Ma non riuscì a far nulla: la battaglia ebbe il suo corso e la strage ne fu il coronamento. L'ammiraglio francese BAUDIN, che avrebbe potuto farla cessare, si rifiutò d'inframmettersi.

Quando la resistenza dei liberali fu vinta, un capitano degli svizzeri si presentò a Monte Oliveto ai deputati, intimando in nome del re, di sciogliersi. I deputati obbedirono, ma prima distesero e mandarono al sovrano la seguente protesta dettata da PASQUALE STANISLAO MANCINI: "La camera dei deputati riunita nelle sue sedute preparatorie in Monte Oliveto, mentre oggi 15 maggio 1848, era intenta ai suoi lavori e all'adempimento del suo mandato, si vedeva aggredita con inaudita infamia dalla violenza delle armi regie nelle persone inviolabili dei suoi componenti nelle quali è la sovrana rappresentanza della Nazione; protesta davanti alla nazione medesima, davanti all'Italia, l'opera del cui provvidenziale risorgimento si vuol turbare con un nefando eccesso; davanti a tutta l'Europa civile, oggi ridesta allo spirito di libertà, contro quest'atto di cieco ed incorreggibile dispotismo, e dichiara che essa sospende le sue sedute, solo perché costretta dalla forza brutale; ma, lungi dall'abbandonare l'adempimento dei suoi solenni doveri, non fa che sciogliersi per riunirsi di nuovo dove ed appena potrà, al fine di prendere quelle deliberazioni che sono acclamate dai diritti del popolo, dalla gravità della situazione e dai principi della inculcata umanità e dignità nazionale".

Il giorno dopo, FERDINANDO II licenziò il ministero, che aveva dato le dimissioni, e ne formò uno nuovo. La presidenza fu data a GENNARO SPINELLI principe di Cariati, che tenne per sé gli Esteri; all'interno con l'interim dell'Istruzione fu messo FRANCESCO PAOLO BOZZELLI, all'Agricoltura e Commercio e l'interim agli Affari Ecclesiastici il maresciallo di campo FRANCESCO PINTO principe di Ischitella, alle Finanze con l'interim della Grazia e Giustizia FRANCESCO PAOLO RUGGIERO, ai Lavori Pubblici il generale RAFFAELE CARASCOSA. Lo stesso giorno 16 maggio il re ordinò lo scioglimento della Guardia nazionale napoletana e, nell'annunciare il provvedimento, il governo, sapendo di mentire, affermava che... "una parte di quella guardia nazionale, istituita per tutelare la sicurezza e la tranquillità delle famiglie, aveva non solo dato mano a sì miserevole perturbazione, ma aveva essa medesima cominciato un attacco contro le reali milizie, le quali, vedendo dei compagni cadere sotto l'inatteso fuoco di armi fratricide, dovettero usare il sacro diritto della difesa; e per un movimento di giusta indignazione, che non era in potere di alcuno di reprimere, lanciarsi tutte a respingere la forza con la forza".

Inoltre, fu dichiarato a Napoli lo stato d'assedio, e fu istituita una Commissione con l'incarico d'inquisire i reati commessi contro la sicurezza interna dello Stato dal 10 maggio in poi e che il 17 era stata dichiarata sciolta la Camera dei deputati perché si era assunto un potere arbitrario illegittimo e sovversivo d'ogni principio d'ordine civile. Lo Statuto però non fu abolito e il 24 maggio furono indetti i comizi elettorali per il 15 giugno e fu decretata l'apertura del parlamento il 1° luglio.

"Profondamento addolorati - diceva il sovrano nel proclama che convocava i comizi - dall'orribile giornata del 15 maggio, il nostro più vivo desiderio è di raddolcire quanto umanamente si può le conseguenze. La nostra fermissima ed immutabile volontà è di mantenere la costituzione del 10 febbraio pura ed immacolata di ogni eccesso, la quale essendo la sola compatibile con veri e presenti bisogni di questa parte d'Italia, sarà l'arca sacrosanta sulla quale devono appoggiarsi le sorti dei nostri amatissimi popoli e della nostra Corona. Le Camere legislative saranno fra breve riconvocate; e la sapienza, la fermezza e la prudenza, che attendiamo da loro saranno per aiutarci vigorosamente in tutte quelle parti della cosa pubblica, le quali hanno bisogno di leggi ed utili riordinamenti. Ripigliate dunque tutte le vostre consuete occupazioni; fidatevi con effusione d'animo della nostra lealtà, della nostra religione e del nostro sacro e spontaneo giuramento, e vivete nella pienissima certezza che la più incessante preoccupazione dell'animo nostro è di abolire al più presto, insieme con lo stato eccezionale e passeggero in cui ci troviamo, e anche per quanto sarà possibile la memoria della funesta sventura che ci ha colpiti".

La conseguenza dei fatti del 15 maggio fu anche causa del richiamo delle truppe inviate, agli ordini del generale GUGLIELMO PEPE, sul Po, e della flotta inviata nell'alto Adriatico. Al generale Pepe si ordinava di mandare per via di mare da Rimini a Manfredonia, una parte della fanteria napoletana e di riunire ad Ancona tutte le altre truppe, compreso il reggimento che si trovava già sul Mincio, e di avviarle verso gli Abruzzi. Ai volontari si dava facoltà di unirsi all'esercito pontificio del DURANDO, che era fermo sul confine.

Primo pensiero di GUGLIELMO PEPE fu di non ubbidire agli ordini del governo napoletano e di passare il Po con le truppe; ma, temendo di non esser seguito, il 22 maggio cedette il comando al generale STATELLA, manifestando il proposito di arruolarsi nello Stato Maggiore di Carlo Alberto. Quello stesso giorno però, spinto dalle esortazioni dei patrioti bolognesi, il Pepe riprese il comando e scrisse a Napoli che era fermamente deciso a non rimandare o ricondurre nel regno le truppe, perché non voleva disonorare le armi napoletane. Il governo di Napoli ordinò ancora alle truppe di ritornare, minacciando agli ufficiali di toglier loro il grado e lo stipendio; e la prima divisione, obbedendo, si mise sulla via del ritorno. Pepe cercò di trattenerla e pubblicò pure il seguente ordine del giorno: "Un numero molto considerevole di sotto-ufficiali e soldati della 1a divisione sedotti da agenti austriaci o da pochi sciagurati delle Due Sicilie di basso e turpe animo e nemici veri della Nazione e del Re Costituzionale, hanno osato abbandonar le bandiere. È cosa deplorabile cosa che sono andati con loro anche molti ufficiali, gli uni per malvagità, gli altri forse per la speranza di poter mantenere un qualche ordine tra i rivoltosi. Ad ogni modo io dichiaro che gli ufficiali, sottufficiali e soldati, i quali nello spazio di tre giorni non ritorneranno a Ferrara, saranno considerati come disertori alla presenza del nemico".

Ma a nulla valse per far tornare indietro la 1a divisione. La 2a divisione parve credere al Pepe, il quale affermava di avere ricevuto contrordine dal re; e l'8 giugno il 2° e il 3° battaglione di volontari, comandati da FRANCESCO MATARAZZO e da ROCCO VACCARO, passarono il Po con una batteria di artiglieria; ma il 10 giugno, quando il generale ordinò alle truppe di concentrarsi a Rovigo, soltanto il 2° battaglione di cacciatori, la 6a compagnia zappatori e pochi altri ufficiali e soldati si portarono sulla sinistra del fiume; gli altri si sbandarono, poi riuniti sotto il comando del generale FILIPPO KLEIN, presero la via del Tronto e degli Abruzzi. Con i pochi fedeli rimastigli GUGLIELMO PEPE si portò a Venezia e qui DANIELE MANIN gli conferì il comando di tutte le truppe di terra che difendevano la città.

LA RIVOLTA CALABRESE

I fatti del 15 maggio a Napoli, oltre che il richiamo delle truppe e della flotta, provocarono viva agitazione nelle province del Regno, specie nelle Calabrie. Verso la fine di maggio in questa regione si costituirono comitati di pubblica sicurezza; a Cosenza si formò un governo provvisorio, del quale si misero a capo i deputati RAFFAELE VALENTINO, GIUSEPPE RICCIARDI, DOMENICO MAURO ed EUGENIO DE RISO, che lanciarono il seguente manifesto mentre si chiedevano aiuti alla Sicilia e si iniziavano a raccogliere uomini armati: "I gravi fatti di Napoli del15 maggio e gli atti distruttivi di quella Costituzione hanno rotto ogni patto fra il principe ed il popolo. Noi però, vostri rappresentanti, capi del movimento delle Calabrie, rafforzati dallo spontaneo soccorso dei nostri generosi fratelli della Sicilia, rincuorati dall'unanime grido d'indignazione e di sdegno che si è levato contro il pessimo dei governi, nonché nelle altre province nell'Italia tutta; certi d'essere interpreti fedeli del pubblico voto; memori della solenne promessa fatta dai dimissionari parlamentari nella loro nobile protesta del 15 maggio di riunirsi nuovamente, crediamo debito nostro invitare i nostri colleghi a convenire il 15 giugno a Cosenza per riprendere le deliberazioni interrotte a Napoli dalla forza brutale, e porre sotto l'egida dell'Assemblea nazionale i sacri diritti del popolo napoletano. Mandatari della Nazione, chiamiamo intorno a noi, e invochiamo a sostegno della libertà nazionale la fede e lo zelo delle milizie civili; le quali nel sostenere in modo efficace la santa causa, a tutelare la quale siamo stati forzati a ricorrere alla suprema ragione delle armi, sapranno mantenere la sicurezza dei cittadini e il rispetto alle proprietà, senza di cui non ci può essere libertà vera".

La Sicilia rispose all'appello dei Calabresi inviando il 12 giugno da Milazzo un corpo di seicento uomini con una batteria da campagna. Comandavano la minuscola schiera i colonnelli RIBOTTI e LONGO, i quali, giunti a Cosenza, presero sotto di loro quelle poche migliaia di uomini che erano state raccolte nella regione. Il Ribotti fu nominato capo supremo di tutte le forze degli insorti. A reprimere l'insurrezione calabrese il Governo di Napoli inviò tre corpi di truppe: il primo, di quattromila uomini, al comando del generale FERDINANDO NUNZIANTE, lasciò la capitale il 4 giugno e, sbarcato al Pizzo, si accampò a Monteleone; il secondo, di duemila uomini, agli ordini del brigadiere BUSACCA, partì il 10 e, sbarcato a Sapri, si mise in marcia verso Castrovillari, dove doveva raggiungerlo il terzo corpo di duemila soldati, la massima parte a cavallo, guidati dal brigadiere LANZA. Il Ribotti fece del suo meglio per tener testa ai regi, ma le numerose diserzioni dei Calabresi, la maggior disciplina e il migliore armamento del nemico ebbero ragione della resistenza degli insorti. II 2 luglio il Ribotti con i suoi Siciliani, il governo provvisorio e i principali autori del moto si ritirarono a Tiriolo; il 7 luglio i regi, che nella loro avanzata avevano lasciato tracce della loro ferocia, s'impadronirono di Cosenza. Il Ribotti, temendo di essere circondato a Tiriolo, chiese al Nunziante, per mezzo del vescovo di Nicastro, di concedergli il ritiro in Sicilia, ma il generale borbonico rispose intimandogli la resa a discrezione. I siciliani decisi a non cadere nelle mani del nemico, guadagnarono la spiaggia ionica e sopra due brigantini presero il mare. Erano giunti l'11 luglio presso Corfù quando il tenente di vascello SALAZAR della Marina Napoletana, che con una nave inseguiva i fuggiaschi, ebbe nell'avvicinarsi l'"infelice-felice" idea di issare una bandiera inglese; con quest'indegno inganno riuscì prima a fermarli poi con le armi spianate a catturarli tutti I prigionieri in parte furono condotti a Reggio, parte a Castel Sant' Elmo e a Nisida e sarebbero andati sicuramente tutti sul patibolo, se l'ammiraglio inglese PARKER, venuto a conoscenza dell'indegno inganno, in nome del suo governo, non avesse dichiarato al governo napoletano "che avrebbe visto con profondo dispiacere qualunque atto di severità associato all'abuso della bandiera britannica".

Per l'intervento inglese i prigionieri ebbero salva la vita, ma i più -con la scusa del processo da farsi- languirono molto tempo in carcere prima di ottenere la libertà. Il RIBOTTI solo nel 1854 uscì da, Castel Sant' Elmo; Longo, Delli Franci, Guiccioni, Angarà, che erano stasi ufficiali nell'esercito borbonico, furono sottoposti come disertori al giudizio del tribunale militare. Il Guiccioni fu messo in libertà provvisoria, l'Angarà fu rinviato alla Gran Corte Criminale, il Longo e il Delli Franci furono condannati a morte, ma la pena fu poi commutata dal re in quella dell'ergastolo perpetuo.

Gli inglesi (per i loro interessati motivi, che abbiamo qualche volta accennato, ma nei particolari mai approfonditi, iniziarono nuovamente una campagna diffamatoria sui Borboni, e torneranno a schierarsi contro il Regno delle Due Sicilie, operando in quella politica occulta, settaria e complottista, la cui natura non va ricercata sui campi di battaglia o negli atti ufficiali del Risorgimento italiano, ma piuttosto, negli accordi segreti, per infliggere un colpo decisivo al papato. E' ricordiamoci l'epoca dell'onnipresente lord Palmeston (alias Henry John Temple), gran maestro della Massoneria e fondatore dell'Ordine ebraico di Sion; l'uomo che avrebbe in sostanza dominato la politica estera britannica (e, in un certo senso europea) fino all'anno 1865; oltre che grande finanziatore dell'impresa garibaldina, per preparare il terreno della caduta di Roma, vendicare l'affronto loro inflitto dai Borboni nella controversia internazionale sul monopolio del commercio dello zolfo siciliano (allora unico al mondo, usato per le fonderie), e contribuire alla nascita di una forte nazione che potesse fare da contrappeso alla potenza francese e austriaca in quell'ambita fascia meridionale del continente. E va dato atto a Cavour, Mazzini e Garibaldi (che a Londra godevano di potenti appoggi) di essere stati abili nello sfruttare in chiave antiborbonica e antipapale i sentimenti anticattolici dominanti in Inghilterra. Qualcuno si è spinto molto più in là nell'analizzare oggi i fatti di questi periodi, affermando che il cosiddetto Risorgimento "è stato solo un capitolo della storia dell'imperialismo britannico". i fatti di Napoli del 15 maggio ebbero gravi conseguenze nel Lombardo-Veneto, dove, prima nei combattenti, poi nella popolazione civile, quel richiamo dell'esercito napoletano e la parola del Pontefice smorzarono l'entusiasmo e destarono (ed era quello che si voleva) scrupoli religiosi.

Al fallimento della guerra del 1848 (di cui narreremo la seconda parte nel prossimo capitolo) la politica di Roma e di Napoli certo contribuì non poco, ma vi contribuirono maggiormente anche i dissensi politici sorti nelle regioni che si erano sollevate contro lo straniero ed erano pure diventate il teatro della guerra. L'Italia Unita, se vogliamo iniziare da questa prima guerra, non nacque, insomma, grazie alla forza delle proprie armi, e nemmeno per l'impulso delle sue popolazioni (che anzi -e in questo capitolo abbiamo la testimonianza- erano prevalentemente antiunitarie) ma grazie a manovre diplomatiche ordite, a favore del Piemonte, o contro, dalle forze rivoluzionarie europee e da altri fattori per nulla ideologici. Palmerston, capo del governo inglese, che esaltava la liberazione d’Italia dagli stranieri, non solo quest'anno (come vedremo in fondo) suggeriva agli austriaci di ritirarsi dalla Lombardia e concedere l'indipendenza ai lombardi (quindi non a Carlo Alberto), ma suggeriva pure al governo napoletano di riconoscere l’indipendenza della Sicilia. Insomma l’Inghilterra voleva fuori lo straniero dall’Italia ma nello stesso tempo anche separare il Regno, per appropriarsi della Sicilia. L’isola, infatti, dopo l’occupazione francese dell’Algeria e la costituzione di una base navale ad Algeri, era diventata per gli Inglesi importante per controbilanciare l‘accresciuta potenza navale francese nel Mediterraneo. Ma non dimentichiamo il già fallito tentativo degli inglesi, di spingere l'Isola all'indipendenza durante il periodo napoleonico, Indipendenza (o sudditanza) che dal 1806 fino al 1815 di fatto lo era già diventata e con una costituzione di tipo inglese già pronta; c'era Ferdinando e Maria Carolina a Palermo ma non comandavano nulla (vedi quel critico e triste periodo).

Torniamo a Milano. Vi era il partito di quelli il quale sostenevano seriamente che soltanto a guerra finita si doveva pensare all'ordinamento politico (le stesse identiche cose furono poi dette nella Resistenza del 1943-45); altri appoggiavano la sollecita unione delle province lombarde e venete al regno sardo; le medesime e altre ancora desideravano che le province liberate si governassero a repubblica; infine il popolo delle città e delle grosse terre non si mostrava mosso da sentimenti monarchici o repubblicani ma solo dalla brama di cacciare gli Austriaci (così i tedeschi nel 1943-45); il popolo della campagna invece o si mostrava indifferente o, sia per i disagi della guerra, sia per timore di rappresaglie in caso di vittoria nemica, sia per avversione alle novità, parteggiava quasi per gli Austriaci (e fra poco nella stessa Milano, qualcuno rimpianse proprio questi; e nelle città Venete della terra ferma le classi dirigenti clerico-moderate, il clero, la burocrazia, le gerarchie ecclesiastiche, i nobili e i notabili, vivacchiarono bene; e qualche industriale deve agli austriaci la propria fortuna imprenditoriale e alcuni imperi tessili.

Carlo Alberto, dimenticando che nei suoi proclami aveva dichiarato di scendere in campo per prestare aiuto fraterno e disinteressato alle popolazioni della Lombardia e del Veneto, dimenticando il compromesso stipulato con Milano che soltanto dopo la vittoria, la nazione libera avrebbe deciso del suo avvenire politico, spinto dal timore che nell'una e nell'altra regione s'istituisse (con tutti quei volontari accorsi) il regime repubblicano, fin dal 6 aprile dettava al suo ministro della Guerra FRANZINI di scrivere al Governo provvisorio di Milano la lettera seguente:

"Nel riconoscere il Governo provvisorio residente in Milano e nel trattare con esso, Sua Maestà ha inteso aver che fare con un potere il quale traeva l'autorità, che con tanto patriottismo ha saputo esercitare, dalla forza imperiosa delle circostanze e dal concetto d'ottimi cittadini in cui erano universalmente tenuti i componenti esso Governo. Ma Sua Maestà non può a meno di considerare (ed è lieta di trovarsi in ciò pienamente con il sentimento già pubblicamente e chiaramente espresso dal Governo provvisorio) che solo popolo, che con tanto valore ha saputo di recente liberarsi dal giogo straniero, spetta il sacro diritto di determinare la forma del proprio suo governo. E' perciò desiderio di Sua Maestà che il Governo provvisorio provvede, nel più breve tempo possibile, alla convocazione di quell'assemblea elettiva che dovrà sovranamente decidere dei futuri destini di queste belle province italiane; è pure desiderio di S. M., ed anche in ciò confida trovarsi pienamente d'accordo con le intenzioni del Governo provvisorio, che l'assemblea emani da un sistema di elezioni larghissimo e liberalissimo, in modo che le decisioni possano veramente riguardarsi come l'espressione più sincera del comun voto .... ". Così CARLO ALBERTO, prima ancora che cominciassero le vere e proprie operazioni di guerra, già suscitava i primi dissensi. (in fondo diremo poi di chi sono queste parole) "Il regno dell'Italia settentrionale sotto il re del Piemonte avrebbe potuto essere un semplice "fatto", creato dalla vittoria, accettato dalla riconoscenza, subìto dagli altri principi per impossibilità di distruggerlo; ma gettato in via di programma anteriore ai primordi del fatto, era il pomo della discordia là dove la più alta concordia era necessaria. Era un guanto di sfida cacciato, con la negazione dell'unità, agli unitari: un sopruso sostituendo alla vita nazionale la volontà della parte monarchica ai repubblicani: una ferita alla Lombardia che voleva confondersi nell'Italia, non sacrificare la propria individualità a un'altra provincia italiana; una minaccia all'aristocrazia torinese che paventava il contatto assorbente della democrazia milanese: un ingrandimento sospetto alla Francia, perché dato a una potenza monarchica avversa da lunghi anni alle tendenze e ai moti francesi: un pretesto somministrato ai principi d'Italia per distaccarsi dalla crociata verso la quale i popoli li spingevano: una semenza di gelosia messa nel cuore del Papa: un raggelamento di entusiasmo in tutti coloro che volevano bensì porre l'opera e occorrendo la vita in un'impresa nazionale, ma non in una speculazione di egoismo dinastico. Creava una serie di nuovi ostacoli, non ne rimuoveva alcuno. Creava inoltre una serie di necessità logiche che avrebbero signoreggiato la guerra. E la signoreggiarono e la spensero nel danno e nella vergogna".

Le parole sopra appartengo a GIUSEPPE MAZZINI, che, avuta notizia dei moti italiani, era partito dalla Francia ed era giunto a Milano l'8 aprile, appena in tempo per leggere fresco di stampa il proclama del re. Nell'infuriare dei partiti, il grande agitatore fornì invece prova di sincero patriottismo, predicando la concordia, senza la quale non si sarebbe potuto vincere lo straniero. Il suo contegno fu così "riservato" e così "moderato", da farlo giudicare da una parte, dal CATTANEO, come "un venduto al Re sabaudo", e all'altra da far concepire ai consiglieri di Carlo Alberto la speranza di "tirare dalla loro parte" il fiero repubblicano. Narra lo stesso Mazzini che, dopo la caduta di Udine, gli giunse dal campo un amico, il quale, in nome del conte di CASTAGNETO (segretario del re) gli propose di sostenere l'unione del Lombardo-Veneto al Piemonte e di trarre alla parte regia i repubblicani, assicurandogli che Carlo Alberto, nella futura costituzione, avrebbe incluso quegli articoli democratici da lui invocati. Il Mazzini rispose dettando alcune righe, che il sovrano doveva firmare, leggere e diffondere come un "suo programma":

"Io sento maturi i tempi per l'Unità della Patria; intendo, o Italiani, il fremito che affatica le anime vostre. Su, sorgete; io precedo. Ecco io vi do pegno della mia fede, spettacolo ignoto al mondo di un re-sacerdote dell'epoca nuova, apostolo armato dell'Idea-Popolo, edificatore del tempio della Nazione. Io lacero nel nome di Dio e dell'Italia i vecchi patti che vi tengono smembrati e grondano del vostro sangue: io vi chiamo a rovesciare le barriere che anche oggi vi tengono divisi e ad accentrarvi in legione di fratelli liberi, emancipati intorno a me vostro duce, pronto a cadere o a vincer con voi".

Era un programma che il re -il segretario conoscendolo bene- non poteva far suo e che perciò il conte di CASTAGNETO non accettò. Allora il Mazzini uscì dal "riserbo" e dalla "moderazione" per sostenere i suoi principi repubblicani e per impedire che l'impresa nazionale diventasse puro e semplice ingrandimento d'una monarchia e fondò "L'Italia del Popolo". Ma i più, nella Lombardia e nell'Emilia, erano per l'unione al regno di Sardegna e a Milano anche gli stessi che avevano sognato una repubblica ambrosiana o lombardo-veneta, consideravano l'unione al Piemonte necessaria se si voleva che Carlo Alberto s'impegnasse a fondo contro gli Austriaci. Anche il GIOBERTI (rientrato il 30 aprile a Torino dopo quindici anni di esilio) il 7 maggio si recava a Milano e parlava al popolo; favoriva e propagandava l'idea della fusione che, secondo lui, non contrastava con il suo antico programma federale.

I PLEBISCITI DI PIACENZA, PARMA, MODENA E REGGIO

I primi plebisciti si ebbero nell'Emilia: a Piacenza si chiusero gli scrutini il 2 maggio e fatto lo spoglio, risultò che su 37.583 votanti, 37.089 avevano votato per l'immediata annessione, che fu solennemente proclamata il 10; a Parma si aprirono l'8 maggio, il 25 fu fatto lo spoglio da cui risultò che, su 39.703 votanti, 37.250 erano stati per l'unione, che fu proclamata quel giorno stesso; a Modena e a Reggio, con voto quasi unanime, l'annessione fu proclamata nei giorni 25 e 26. Il Governo provvisorio di Milano seguì l'esempio delle città emiliane e il 12 maggio lanciò il seguente bando:

"Cittadini ! Il Governo provvisorio di Lombardia, sorto fra le barricate, tiene il suo mandato dal fatto sublime dell'eroica nostra rivoluzione, la quale operata dal concorso di tutte le forze sociali, non aveva altro scopo che la cacciata dell'Austriaco e la conquista dell'indipendenza italiana. Perciò fin da quando tuonava il cannone nelle nostre contrade ed il popolo rispondeva ai colpi micidiali gridando Viva l'Italia!, il Governo, anche nella urgenza del momento, anche invocando il soccorso del generoso Re Sardo, anche ammirando le prove di maturità politica che dava il valoroso popolo disciplinato ed unito nei furori stessi d'una guerra a morte, non credette alzare altro grido che il grido di "Viva l'Italia !", e non altro vessillo che il vessillo dell'Indipendenza nazionale. Così lasciando intatte tutte le questioni di forma politica e di ordinamento definitivo, volle che queste regioni, per tanti anni forzate a chiamarsi straniere all'Italia, prima tornassero alla patria comune, e rassegnate ad ubbidire i voleri proclamassero la loro devozione all'Italia unita e concorde. Quindi nel proclama del 22 marzo dichiarava "che essendo chiamati a conquistar l'indipendenza di questa nostra carissima patria, di null'altro i buoni cittadini dovevano allora occuparsi che di combattere"; quindi nel proclama del 29 marzo soggiungeva: "Poiché un solo grido - l'indipendenza - ci ha fatto vincere, un solo grido deve farci compiere la vittoria: l'Italia unita e libera". "Ma ora, o cittadini, il grido salutare di "Viva d'Italia!" che riassumeva tutta quanta la politica del Governo provvisorio, non esce più solo. Quella coraggiosa neutralità di opinioni, quella forte aspettativa che sarebbe stata uno spettacolo unico nella storia, ella avrebbe offerto un meraviglioso esempio di tolleranza, di momentaneo sacrificio di ciò che l'uomo meno facilmente tempera e sacrifica, non fu conservata. Quella santa concordia, quella generale fratellanza, dove ogni cittadino vedeva e cercava negli altri cittadini dei commilitoni, quella magnanima tolleranza, che nulla voleva dal presente e tutto aspettava dall'avvenire, purtroppo hanno dato luogo all'impazienza sdegnosa ed irritante. Indocili di freno, smaniose di preoccupare il libero arringo, le opinioni si agitarono, si occuparono, si accusarono a vicenda, si accamparono le une contro le altre. La neutralità che fu proclamata per impedire i dissidi e le discussioni inutili in faccia al nemico, la neutralità che fu annunciata in ossequio alla patria italiana perché tutto si riferisse ai supremi di lei interessi ed intorno alla sacra di lei bandiera si raccogliessero per unificarsi tutti i desideri, tutti i voti, ora è accusata di nutrire e fomentare le discordie civili, di autorizzare le più avverse e nemiche speranze, di tenere tutto il resto d'Italia in una penosa incertezza. Né gli animi si contennero nei limiti di una discussione che nel suo ardore era già pericolosa: ma in molte province si pubblicarono appelli, si raccolsero firme a migliaia, preludendo così al voto della nazione, società si organizzarono con nomi ed intenti diversi in cui le questioni più sottili ed ardenti furono agitate, discusse, pubblicate: la stampa legale, la stampa anonima si diedero ad esercitare propagande fra loro contrarie, suscitarono passioni, alimentarono speranze, insinuarono, imposero la convenienza, la necessità ad uno scioglimento. Ed intanto da tutte le parti ci giungono inviti, raccomandazioni pressanti di prendere una soluzione: popoli, governi, città, uomini ragguardevoli per il senno, per il patriottismo, per le guarentigie date alla causa italiana, ci esortano ad uscire da quel campo in cui c'eravamo trincerati, in aspettativa di quello che fossero per maturare gli avvenimenti generali d'Italia. In questo stato di cose il Governo provvisorio di Lombardia non può avere fiducia nel principio di quella neutralità che aveva proclamata per conservarsi tutto alla guerra ed alla difesa del paese. L'aveva proclamata per poter essere un governo unicamente guerriero ed amministratore, ed ora invece si trova trascinato in mezzo alle distrazioni di incessanti dispute politiche, e costretto a difendersi ogni giorno dall'insistenza delle più divergenti opinioni. Questo stato di cose non può durare. "O il popolo riprenda il suo impegno di non voler parlare di politica e colla sua gran voce imponga silenzio ai partiti, o si decida per quella fusione che sola è naturale, sola è possibile nelle presenti circostanze. In favore del principio di neutralità stava la grandiosità e l'unità del concetto che tutto subordinava al voto dell'intera nazione. Ma perché si persistesse a professare e praticare questo principio, bisognava che gli animi si componessero in calma, si confermassero nel coraggio della pazienza, bisognava avere una stima grandissima degli uomini, un giudizio continuamente pacato delle cose bisognava in specie che diventasse legge per tutti il rispetto fraterno delle opinioni di tutti. Né veramente era da sperarsi che una condizione d'animi, una tale abnegazione d'ogni simpatia individuale, d'ogni preoccupazione di dottrine e di fatti a lungo durasse. Ma quando si accoglieva tale speranza, guerra breve e vittoria sicura era nel pensiero di tutti: e perciò a tutti pareva facile e naturale rimettere a causa vinta la discussione dei destini politici del paese. Invece guerra grossa, sanguinosa, lunga, armamento di tutto il paese ed organizzazione di un esercito lombardo, sussistenza per questo, per il piemontese, per il toscano, per il romano, per il napoletano; finanze che hanno bisogno di rimedi e sussidi pronti efficaci, ubbiditi senza contraddizione in tutto il territorio; complicazioni politiche imprevedute; influenze ostili della straniera diplomazia; bisogno urgente di avere posto nel consorzio delle nazioni di Europa; le province venete in gran parte rioccupate dai barbari; ecco le nuove e gravi condizioni, nelle quali il paese si trova e che consigliano una decisione. "Quale sarà questa decisione? Certo quella che più favorisca la gran causa d'Italia, quella che più acceleri il fine della guerra dell'indipendenza. E però come Lombardi, in nome e per l'interesse di queste province, come Italiani per l'interesse di tutta la nazione, dobbiamo riconoscere, provvido il pensiero che le nostre terre si associno al vicino e bellicoso Piemonte, salve le comuni guarentigie della libertà, per formare dell'alta Italia un inespugnabile baluardo contro tutte le straniere invasioni, sotto lo scettro costituzionale di quella illustre Casa di Savoia cui la storia assegnò il glorioso titolo di guardiana delle porte d'Italia. "Già Parma e Modena ci hanno preceduto nella manifestazione più o meno esplicita di questo voto che inizia in sì nobile parte d'Italia il pensiero della italica unità; già la Sicilia dichiarando solennemente di affidare le sue sorti al reggimento monarchico costituzionale, ci ha mostrato quale sia nel presente la strada aperta all'unione d'Italia. Or dunque non dovrà la Lombardia, dall'altezza del posto in cui fu collocata dalla sua vittoria, rispondere fieramente all'accusa che le fu mossa di volere far da sé e per sé? Non dovranno i Lombardi attestare grato animo a quei fratelli che loro corrono incontro, che danno loro sì splendidi argomenti di simpatia, che sono pronti a muoversi in loro favore dalle ambizioni più legittime, e non altro anelare che di averli insieme nella grand'opera del ricomponimento dell'Italia unita? A voi tocca decidere, o cittadini, a voi tocca ponderare se nelle circostanze presenti sia da insistere in un partito che una volta era opportuno, ma che ora potrebbe forse essere oggetto di discordia, presso alla quale sta sempre la schiavitù: o se un altro se ne debba abbracciare determinato dal pensiero dei grandi interessi della patria italiana. "Il vostro Governo non può rimanere spettatore indifferente del pericolo di una discordia civile; ed è nel proposito di rendervi uniti e forti che ha determinato di fare appello al popolo intero, perché la sua sacra e potentissima voce copra quella di tutti i partiti per confonderli in uno solo. Premesse queste considerazioni, il Governo provvisorio della Lombardia decreta:

1° Sono aperti i registri presso tutte le parrocchie di tutti i comuni di Lombardia, ad effetto di ricevere le sottoscrizioni del popolo Lombardo. 2° L'uomo che avrà ventun'anni compiuti avrà diritto di sottoscrivere. 3° Gli illetterati faranno la croce alla presenza del parroco e di due delegati. 4° La sottoscrizione dovrà essere fatta da ciascheduno nella parrocchia dove tiene la propria abitazione, senza distinzione di culti. 5° I parroci o coloro che ne fanno le veci saranno assistiti nel ricevimento delle sottoscrizioni da due delegati nominati nelle città dalle rispettive congregazioni municipali. 6° Nei comuni di campagna i parroci saranno assistiti da due membri delle Deputazioni comunali o loro sostituti, oppure da due persone scelte dalle medesime deputazioni. Dove però esistono consigli comunali, i delegati saranno scelti di preferenza nel corpo dei consiglieri. 7° I registri saranno aperti presso le parrocchie dal giorno nel quale sarà fatta la pubblicazione della presente legge nei rispettivi comuni e saranno chiusi definitivamente il giorno 29 del corrente mese di maggio, anniversario della battaglia di Legnano. Dopo di che, sigillati dai parroci, saranno rimessi alle rispettive Deputazioni comunali ed alle Congregazioni municipali. 8° Dovendosi poi provvedere che il diritto di voto possa esser regolarmente esercitato anche dai cittadini che si trovano sotto le armi nell'esercito attivo, si dispone che i registri siano pure aperti presso i comandi dei corpi. I soldati italiani, tanto coscritti quanto volontari, che militano sotto la bandiera di Lombardia, voteranno anch'essi per sottoscrizione da farsi alla presenza degli ufficiali superiori del corpo al quale appartengono. 9° La Commissione governativa destinata ad inviare soccorsi alle province venete avrà cura di far raccogliere i voti dei cittadini, che formano parte della compagnia che ora si trova in quel territorio. 10° Le Deputazioni comunali e le Congregazioni municipali dovranno rimettere i registri sigillati alla Congregazione provinciale dalla quale dipendono con il mezzo più pronto e sicuro e sotto la più stretta loro responsabilità. 11° Le Congregazioni provinciali faranno lo spoglio alla presenza del Vescovo o suo rappresentante e di un Commissario governativo. 12° Per le speciali condizioni della città e provincia di Mantova, non potendo aver luogo il disposto degli articoli 10 e 11, si stabilisce che le Deputazioni comunali debbano rimettere i registri sigillati al Commissario straordinario del Governo residente in Bozzolo e che lo spoglio dei registri sia fatto da lui alla presenza dell'autorità ecclesiastica e comunale del luogo. 13° Lo spoglio dei registri dovrà essere sigillato dopo l'analogo processo verbale, e quindi rimesso al Governo insieme ai registri medesimi con la massima sollecitudine. 14° Lo spoglio dei registri delle province sarà reso pubblico dal Governo e quella delle due proposizioni che avrà avuto il maggior numero dei sottoscrittori costituirà il voto della Nazione".

TUMULTI DI MILANO - IL PLEBISCITO LOMBARDO

I giorni che intercorsero dall'apertura alla chiusura dei registri furono pieni di pericoli per la pace pubblica, tanto erano divisi gli animi ed accese le passioni di parte. Coloro che erano contrari alla fusione protestarono contro il plebiscito, paventarono quella forma di governo che avrebbero i vincitori imposto alla Lombardia, oltre ad allarmare che Milano avrebbe perso il suo privilegio di capitale. Gli avversari dell'annessione ricorsero a tutti i mezzi possibili per fare proseliti. Dalle guardie civiche fecero sottoscrivere un appello con il quale si chiedeva:

1° indissolubilità della Guardia nazionale nel suo stato ed ordinamento attuale; 2° libero diritto di associazione; 3° libertà di stampa; 4° legge elettorale da pubblicarsi per l'assemblea costituente.

Il giorno 28 maggio, una folla di persone si radunò in piazza S. Fedele, invitata da foglietti anonimi, gridando al presidente CASATI, affacciatosi al balcone, che i quattro articoli dell'appello delle guardie fossero tradotti in legge. Il Governo, credendo di assicurare la pace, ebbe la debolezza di cedere e il giorno dopo pubblicò l'atto seguente: "Il Governo sa che quei pochi, i quali si levarono in rappresentanti del popolo sono dal popolo disdetti; sa che il popolo deplora tutte queste dimostrazioni tumultuose: tuttavia, non a soddisfare esigenze inopportune, ma a rassicurare i buoni e a dare una nuova e solenne testimonianza della sua lealtà, dichiara: il popolo lombardo gode al presente delle seguenti franchigie: libertà di stampa, diritto di associazione, guardia nazionale. Queste franchigie saranno conservate al popolo lombardo nella forma ed estensione attuale di diritto e di fatto, finché l'assemblea costituente non venga a regolare la sorte del popolo stesso. La legge, con la quale l'assemblea costituente sarà convocata, avrà per base il suffragio universale".

Il giorno 29 maggio, anniversario della battaglia di Legnano, mentre a Curtatone e a Montanara si combatteva, ci fu un'altra dimostrazione in piazza S. Fedele. Il palazzo del Governo fu invaso da alcuni audaci, e un ex-ebreo di nome URBINO, affacciatosi al balcone, annunciò che il Governo era dimissionario; poi cominciò a leggere i nomi dei nuovi governanti; ma il presidente Casati, strappatogli di mano il foglio, lo lacerò e dichiarò alla folla sottostante che il Governo era al suo posto.

VENEZIA PROCLAMA L'ANNESSIONE AL REGNO SARDO

L'8 giugno fu fatto lo spoglio e l'unione risultò approvata con 561.002 voti contro 681. Le province venete, nello stesso giorno seguirono l'esempio della Lombardia, avverse com'erano al primato di Venezia, ma anche alla democrazia repubblicana. Senza neppure aspettar l'esito della votazione, i deputati di Vicenza, Padova, Treviso e Rovigo avevano già dichiarato che se entro il 4 giugno Venezia non avesse condiviso il desiderio delle loro province di unirsi allo Stato Sardo Sabaudo si sarebbero staccate dalla (da poche settimane, con Manin) dalla risorta Repubblica Serenissima. DANIELE MANIN - e con lui alcuni altri membri del Governo - era contrario all'annessione e avrebbe preferito che il Veneto e la Lombardia formassero una repubblica, la quale per far fronte all'Austria chiedesse alla Francia l'aiuto di un esercito. Ma quando, dopo l'invio a Parigi di ANGELO ZANARDINI e GIACOMO NANI prima, e di ALEARDO ALEARDI e TOMMASO GAR poi, comprese che l'aiuto francese non sarebbe mai venuto, e sotto la minaccia dell'abbandono delle province della terraferma, il Manin insieme con il PALEOCAPA pubblicò, il 3 giugno, un decreto in cui era detto: "È convocata a Venezia un'assemblea di deputati di questa provincia, la quale: a) deliberi se la questione relativa alla presente condizione politica debba essere decisa subito o a guerra finita; b) determini, nel caso ché resti deliberato per la decisione istantanea, se il nostro territorio debba fare uno Stato da sé o associarsi al Piemonte; c) sostituisca o confermi i membri del Governo provvisorio".

La prima riunione dell'assemblea doveva aver luogo il 18 giugno, ma per le vicende della guerra (erano cadute l'11Vicenza, il 13 Padova e Treviso) fu differita al 3 luglio. Nel frattempo il Governo veneziano mandava ai governi di Roma, Toscana e Sicilia una lettera circolare in cui, chiamandoli arbitri del destino del Veneto, chiedeva loro se giudicassero necessario che fosse chiamato l'intervento straniero. I governi di Roma e di Firenze concordemente sconsigliarono di ricorrere all'aiuto straniero. "Chi sa - scriveva il ministro dalla Toscana NERI CORSINI - che, chiamati i Francesi, invece di un solo nemico e di avere un solo oppressore, non si trovi ad averne due?". Mentre il MARCHETTI, ministro degli esteri romano, considerava l'appello allo straniero "l'espressione di un disperato partito, cui gli Italiani non si appiglieranno mai finché vorranno e concordemente vorranno bastare a sé stessi".

Finalmente il 3 luglio, nelle sale del palazzo dei Dogi si riunirono i rappresentanti di Venezia, di Chioggia, di Loreo e di pochi altri distretti. Nella prima tornata ebbe luogo la verifica dei poteri e il presidente MANIN, in un lucido e sereno discorso, narrò gli eventi accaduti dopo il 22 marzo ed espose i motivi della convocazione dell'assemblea. Nella seconda tornata il Manin, parlando degli affari esteri della repubblica, disse tutto quanto aveva fatto per ottenere un soccorso della Francia; il CASTELLI dipinse a tinte fosche le condizioni dell'erario; il TOMMASEO parlò contro la fusione e propose che si differisse ogni deliberazione a guerra finita; il PALCOCAPA invece ammonì a non seguire "una politica astratta, vaporosa e nubiforme, che si può convertire troppo facilmente come le nubi in tempesta" e sostenne la necessità dell'unione con i Sardi.

Allora sorse ancora a parlare Daniele Manin (e fu realistico e pure profetico!): "Io conservo oggi - disse - la medesima opinione che avevo il 22 marzo, quando dinnanzi alla porta dell'Arsenale e sulla Piazza di S. Marco proclamai la repubblica. Io l'ho ancora e tutti allora l'avevano. Ora tutti non l'hanno più. Parlo con parole di concordia e di amore e prego di non essere interrotto. È un fatto che tutti oggi non hanno quell'opinione. È pure un fatto che il nemico sta alle nostre porte, che attende e desidera una discordia in questo paese, inespugnabile finché siamo d'accordo, espugnabilissimo se qui entra la guerra civile. Io, astenendomi da ogni discussione sulle opinioni mie e sulle altrui, domando oggi un gran sacrificio, e lo domando al partito mio, al generoso partito repubblicano. Al nemico che è sulle porte, e che aspetta la nostra discordia, diamo oggi una solenne smentita. Dimentichiamo oggi tutti i partiti; mostriamo oggi che dimentichiamo di essere realisti o repubblicani e che siamo invece tutti italiani. Ai repubblicani io dico: l'avvenire è nostro. Tutto quello che si è fatto e che si fa è provvisorio. Deciderà la dieta italiana a Roma". . Dopo queste generose parole, che commossero l'uditorio, si venne alla votazione, Di 133 deputati solo 6 votarono contro, 127 a favore dell'unione, che fu decretata con la formula seguente proposta da IACOPO CASTELLI: "Obbedendo alla suprema necessità che l'Italia intera sia liberata dallo straniero, e all'intento principale di continuare la guerra dell'indipendenza con la maggiore efficacia possibile, come veneziani in nome e per l'interesse della città e provincia di Venezia, e come Italiani per l'interesse di tutta la nazione, votiamo l'immediata fusione della città e provincia di Venezia negli Stati Sardi con la Lombardia ed alle condizioni stesse della Lombardia con la quale in ogni caso intendiamo restare perpetuamente incorporati, seguendone i destini politici unitamente alle altre province venete".

NICCOLÒ TOMMASEO avrebbe voluto che nel patto della fusione fosse incluso il Trentino, ma il suo suggerimento non fu accolto e fu registrato soltanto nel verbale della seduta del 4 luglio. L'assemblea su proposta di un deputato, voleva dichiarare il Manin benemerito della patria, ma egli si oppose dicendo: "Se i miei concittadini si vogliono mostrare riconoscenti per un atto molto semplice, io li prego, li scongiuro che la concordia inaugurata ieri duri finché il nemico sarà in Italia. Non si parli più, per amor di Dio, di partiti finché il nemico non sarà cacciato: ne parleremo in seguito e fra noi, fraternamente, questa è l'unica ricompensa che io chiedo".

Si procedette quindi all'elezione dei componenti del nuovo Governo. Tutti desideravano che il MANIN rimanesse presidente e la votazione gli diede la maggioranza: infatti, ottenne 76 voti, mentre il PALEOCAPA 46 e il CASTELLI 9. Tuttavia il Manin rifiutò la nomina insistendo sulla sua fede repubblicana: "In uno Stato monarchico io non posso essere niente; posso essere solo dell'opposizione, quindi non posso essere del Governo". Fu allora data la presidenza al Castelli e furono chiamati a far parte del Governo PALEOCOPA, CAMERATA, PAOLUCCI, MARTINENGO, CAVEDALIS e il REALI (5luglio). Il 13 giugno era stato pattuito il testo della convenzione tra il Governo provvisorio di Lombardia e il governo sardo, relativo all'unione, per la quale si poneva come condizione la convocazione di un'assemblea costituente sulle basi del suffragio universale per discutere e stabilire le basi e le forme di una nuova monarchia costituzionale sotto la Casa Savoia.

Due giorni dopo, VINCENZO RICCI, ministro dell'Interno, presentava, al parlamento il seguente disegno di legge: "La Lombardia e le province di Padova, Vicenza, Treviso, Rovigo fanno parte integrante dello Stato. A partire dalla promulgazione della presente legge sino all'apertura del Parlamento comune, successivo, alla Costituente, la Lombardia e le dette province saranno governate con le norme stabilite. Al popolo lombardo sono conservate e garantite, nella forma ed estensione attuale di diritto e di fatto, la libertà di stampa, il diritto di associazione e la istituzione della guardia nazionale. Il potere esecutivo sarà esercitato dal re tramite un ministero responsabile. Gli atti pubblici saranno intestati in nome di S. M. il re Carlo Alberto. Sono mantenute in vigore le leggi ed i regolamenti attuali della Lombardia. Il governo del re non potrà concludere trattati politici e di commercio senza concertarsi previamente con una consulta straordinaria, composta dei membri attuali del governo provvisorio di Lombardia; e riguardo alle quattro province venete sopra indicate, con una consulta straordinaria composta di due delegati per ciascuna provincia. La legge elettorale per l'assemblea costituente sarà promulgata entro un mese dall'accettazione della fusione. Contemporaneamente alla promulgazione della legge stessa, sarà convocata la comune assemblea costituente, la quale dovrà effettivamente unirsi nel più breve termine possibile e non più tardi del giorno 1° di novembre prossimo venturo. La legge elettorale sarà fondata sulle seguenti basi: Ogni cittadino che avrà compiuto l'età di anni ventuno è elettore, salve le seguenti eccezioni: Nei paesi soggetti allo Statuto Sardo sono escluse le persone che si trovano colpite da esclusione a termine della legge 17 marzo prossimo passato. Nella Lombardia i cittadini in stato d'interdizione giudiziaria, eccetto i prodighi; i cittadini in stato di prorogata minore età, quelli che furono condannati o che sono inquisiti per delitti nonché per reati commessi con offesa del pubblico costume, o per cupidigia di lucro, nella quale seconda categoria però non si riterranno comprese le contravvenzioni boschive e le contravvenzioni di finanza e di caccia; quelli sui cui beni è aperto il concorso dei creditori, qualora per il fatto del loro fallimento sia stata contro di loro pronunciata in via civile condanna od arresto; i cittadini che hanno accettato da uno stato estero all'Italia un pubblico impiego civile e militare, qualora non provino di avervi rinunciato, eccettuati i consoli degli Stati esteri e loro addetti. Il numero dei deputati è determinato nel rapporto di uno dai venti ai venticinquemila abitanti. Per la Lombardia, non avente circondari elettorali, si seguiranno i reparti amministrativi attuali, e il riparto e la nomina dei deputati si farà per provincia. Il suffragio è espresso con scheda segreta".

Questo disegno di legge, che in molti punti proclama la fine del vecchio stato sabaudo, provocò infinite discussioni nel parlamento e nel paese. Questa volta furono i Torinesi a temere che alla loro città si togliesse il grado di capitale, e fecero pervenire numerose petizioni alla Camera sostenendo che Torino doveva rimanere la capitale del nuovo regno. Gli animi erano cosi accesi che LORENZO VALERIO, direttore della "Concordia", che sosteneva come capitale Milano, fu minacciato di morte. Mentre a Genova il popolo si mise a dimostrare contro il gretto provincialismo dei Torinesi, chiedendo che il disegno il legge fosse prontamente sanzionato.

In Parlamento gli emendamenti proposti al disegno di legge non furono pochi, e ne presentò perfino uno, lo stesso RICCI. I dissensi, nati in seno allo stesso Ministero, consigliarono questo a chiedere che si formasse un nuovo ministero composto di lombardi e di piemontesi. Finalmente il 6 luglio avendo la camera approvato l'articolo che proibiva al governo Torinese di stipulare trattati politici e commerciali, di far nuove leggi e abrogare o modificare le esistenti senza essersi prima accordata con una consulta straordinaria lombarda, il ministero Balbo diede le dimissioni.

Dopo il voto di Venezia un altro disegno di legge fu presentato al parlamento, che lo accettò: "La città e provincia di Venezia faranno parte integrante dello Stato con le condizioni medesime stabilite dal governo provvisorio di Lombardia, contenute nel protocollo 13 giugno prossimo passato, come saranno pubblicate in Lombardia con la legge del governo di S. M. Per le province venete vi sarà una consulta straordinaria come per quelle di Lombardia, composta degli attuali membri del governo provvisorio di Venezia e di due membri per ciascheduno dei comitati delle quattro province di Padova, Vicenza, Treviso e Rovigo, che hanno già fatto e per cui fu accettata la loro unione con gli Stati Sardí. Quando le tre province di Verona, Udine e Belluno si riuniranno agli Stati medesimi, invieranno alla consulta due deputati per ciascheduna". . Verso la metà del luglio 1848 tutta l'alta Italia, solo sulla carta e con su scritto questi proclami, formava teoricamente un solo stato sotto lo scettro di Carlo Alberto, ma in realtà la Lombardia continuava a governarsi da sé, mentre la terraferma veneta con gli eserciti di Radetzky era già tornata sotto l'Austria, e di commissari regi a Venezia (ormai isolata) non vi era neppure l'ombra. Inoltre le condizioni del nuovo regno, sia politicamente che militarmente non erano felici; mica potevano cancellare, in poche settimane, tutto un passato fatto di tanti rancori; e se alcuni non li conoscevano, c'erano i nemici dell'annessione e della monarchia a far riprendere forza alle antiche gelosie municipali, innescando così un'opera disgregatrice e rendendo aspro il cammino del nuovo stato.

Ma oltre a questo, i tre grandi stati italiani, Toscana, Stato Pontificio e regno delle Due Sicilie si erano appartati dalla lotta e solo la Sicilia pareva accostarsi al Piemonte offrendo, il 10 luglio, la corona al Duca di Genova, secondogenito di Carlo Alberto. Poi la Francia che non vedeva di buon occhio l'accresciuta potenza del regno sardo -senza aver mosso un dito- già vantava compensi territoriali. Infine nelle vecchie e nelle nuove province del regno si criticava l'opera dei generali e dello stesso re e si voleva che le operazioni di guerra procedessero speditamente. Invece, non solo, non si procedeva, ma dopo il "tentennante" e il fallito tentativo del "re tentenna" a Rivoli e a Verona del 13 giugno, fino a metà luglio i piemontesi, al campo di Roverbella, rimasero in stallo, con l'esercito stanco, sfiduciato, indebolito, schiavo della situazione politica, e dov'erano stanziati perfino mal tollerati dalle popolazioni locali, e quindi in quell'ozio erano desiderosi solo di tornare alle proprie case (e mancò poco, anzi pochissimo, come vedremo più avanti).

PROPOSTE DI PACE DELL'AUSTRIA

In tali condizioni, una buona pace sarebbe veramente stata la benvenuta. Già fin dai primi d'aprile (quindi prima ancora della riconquista da parte di Radetzky delle città del Veneto, e prima di finire a Rivarbella nell'ozio e nei dubbi) il governo austriaco aveva, per mezzo del conte FRANCESCO HARTIZ, inoltrate al Governo provvisorio di Milano le seguenti proposte di pace: "L'Austria sgombrerebbe la Lombardia dal Ticino al Mincio e la Lombardia assumerebbe per conto proprio 2000 milioni di fiorini del debito austriaco, e pagherebbe un indennizzo per le spese della guerra: conclusa la pace, si negozierebbe fra l'Austria e il Regno Sardo un trattato doganale e commerciale con le condizioni più vantaggiose alle due parti contraenti; durante la condotta dei negoziati, si stipulerebbe un armistizio con i Sardi". Ma a lord ABERCROMBY, ambasciatore britannico a Torino, che, per incarico di lord PALMERSTON, aveva cercato di persuadere il Governo sardo a non impedire che i governanti Lombardi prendessero in considerazione le proposte austriache, il consiglio dei ministri, in data del 24 aprile, aveva risposto deliberando che: "Si dovevano rifiutare tutte le proposte, che non assicuravano la completa liberazione dell'Italia dalla dominazione austriaca; e nel caso che la pace si dovesse negoziare all'infuori di una tale clausola, il ministero doveva rassegnare le due dimissioni".

Quasi la stessa risposta fu data al conte HARTIZ dal governo provvisorio di Lombardia, che da come abbiamo visto era ormai (ingenuamente) filo-sabaudo.

Poi, nelle successive settimane, essendosi aggravate, a causa della rivoluzione, le condizioni dell'Austria, questa (con ormai Metternich messo alla porta) aveva ripreso più tardi i negoziati, allargando le concessioni e facendo appello alla mediazione inglese. Il 24 di quel mese, per incarico del ministro degli esteri austriaco PELLERSDORF, il barone HUMMELAUER aveva presentato a lord PALMERSTON un memorandum nel quale era detto che... " l'Austria avrebbe lasciato la Lombardia dandole facoltà di costituirsi indipendente o di unirsi ad altro stato; che il debito pubblico sarebbe stato proporzionalmente assunto dalla Lombardia, che il Veneto sarebbe rimasto sotto il dominio dell'imperatore, ma avrebbe usato un'amministrazione tutta nazionale, truppe stanziali proprie, e a capo del governo un arciduca viceré residente a Venezia".

Il PALMERSTON aveva risposto che l'Inghilterra non avrebbe accordato la sua mediazione se l'Austria non avesse ceduto tutte le terre italiane al di qua di una linea che poteva esser fissata da una parte fra Trento e Bolzano (confine di Salorno), dall'altra fra Venezia e Trieste (sul Carso) ed aveva aggiunto: "Lo spirito di nazionalità e d' indipendenza si è fatto tra gli Italiani così universale e così energico che l'Austria, per mantenervi la propria dominazione, dovrebbe sostenere un dispendio di forze militari e pecuniarie sproporzionato rispetto a qualsiasi vantaggio da poterne ritrarre".

Ma il buon HUMMELAUER non era stato autorizzato a trattare a queste condizioni, perché il ministro degli esteri d'Austria WESSENBERG già le aveva respinte. Dopo di che l'Austria, rinunciando alla mediazione inglese, si era rivolta direttamente al governo provvisorio di Milano, mandando al suo presidente, per mezzo del consigliere di legazione SCHMITZERMEERAY, una lettera così concepita:

"S. M. Imperiale, mossa da sentimenti di umanità e di pace, desidera vivamente di veder presto posto un termine alla guerra che rende desolate le sue province italiane. A questo scopo, io sono autorizzato ad aprire con il Governo provvisorio stabilito a Milano un negoziato, che avrebbe per base la separazione e l'indipendenza della Lombardia. Il governo di S. M. I. R. A. non vi aggiungerà che alcune condizioni di pura equità, le quali consisterebbe principalmente nel trasporto di una parte proporzionale del debito dell'Impero austriaco a carico della Lombardia; più un regolamento che assicurasse certi vantaggi al Governo austriaco, ed alcune stipulazioni riguardanti la proprietà privata della famiglia imperiale e i danni sofferti dagli impiegati civili e militari in seguito agli ultimi avvenimenti. Voi vedete, signor Conte, che io entro nella questione con tutta la franchezza possibile. Io vi annunzio nel medesimo tempo che S. M. I. R. A. ha dato gli ordini opportuni per la conclusione d'un armistizio, al quale il governo provvisorio vorrà concorrere indubbiamente. Non rimane ora che nominare, da una parte e dall'altra, dei plenipotenziari per condurre il negoziato allo scopo desiderato".

La lettera, fu scritta, il 13 giugno, e fu presentata il 17. Cioè quando Carlo Alberto a Roverbella era in stallo e non sapeva più cosa fare, mentre sapeva benissimo che Radetzky, ritornato a Verona e con a Nord e ad Est tutte le comunicazioni con l'impero centrale aperte, poteva far giungere tutti gli uomini e i mezzi che desiderava. Ed infatti era quello che Radetzky stava facendo. Qualcuno disse poi che mentre Carlo Alberto faceva contare qui e là i voti dell'annessione, Radetzky invece a Verona contava le divisioni e i 130.000 uomini per andare alla riscossa. L'uomo che aveva già combattuto a Marengo, mica poteva chiudere la sua carriera con una sconfitta.

Alla lettera il CONTE CASATI (indubbiamente poco informato dalla situazione militare) aveva risposto così a WESSENBERG: "Eccellenza, il signor consigliere di legazione Schmitzermeeray mi recapitò una lettera di V. E. contenente proposte di pacificazione, che si riassumono nei punti seguenti: 1o Indipendenza assoluta della Lombardia e sua separazione dalla monarchia; 2° Obbligo per la Lombardia di accollarsi una parte proporzionale del debito austriaco, ecc. Nello svolgimento di tali proposte si nota innanzi tutto la considerazione che V. E. tratta la questione come semplicemente lombarda, mentre da noi fu sempre tenuta come una questione italiana. Ciò posto, se l'art. 10, in luogo di parlare dell'indipendenza lombarda, avesse accennato all'indipendenza di tutte le province italiane soggette allo scettro dell'Austria, i successivi contatti aprirebbero il campo a un negoziato, nel quale andiamo persuasi che non sarebbe difficile il riuscire ad intenderci. Il Governo provvisorio, in cui nome scrivo, partecipa vivamente al desiderio di porre fine ad una guerra desolatrice e che potrebbe durare a lungo con gravi sacrifici per entrambi le parti: ma la causa della quale si tratta è agli occhi suoi tanto sacra che non saprebbe mai determinarsi ad abbandonarla neppure in parte. Le dichiarazioni delle altre province proclamano la fratellanza, né la nostra indipendenza sarebbe sicura se fosse soltanto mezza. V. E. può essere certa che l'Austria troverebbe allora nella vicina Italia una nazione amica, e che gl'interessi materiali delle due nazioni ci guadagnerebbero immensamente, più che se le province italiane dovessero in tutto o in parte rimanere forzatamente unite alla monarchia austriaca".

Questa lettera era una bella lettera, molto altruistica, ma poco realistica (date le forze in campo e la defezione degli alleati) e purtroppo chiuse per sempre la via ad un accordo. Se il Governo provvisorio di Milano avesse accettato queste proposte austriache, la Lombardia non sarebbe ancora rimasta per dieci anni sotto la dominazione straniera; non ci sarebbe stata quest'anno Custoza e Novara, e si sarebbe evitata più tardi un'altra guerra e per di più senza ottenere il Veneto (in pratica in quest'ultima si ottenne ciò che fu offerto quest'anno con questa lettera) e inoltre due grandi umiliazioni sarebbero state risparmiate all'Italia: l'aiuto francese e la pace del 1859 che fece andare in bestia Cavour).

Del rifiuto a questa seconda proposta austriaca non si può in verità attribuirne la colpa a CARLO ALBERTO. Anzi (ma lui era sul posto, gli altri a casa, a ciancionare) fu il più lucido nella situazione e anche il più realista. E fu perfino veggente di ciò che sarebbe accaduto poi nel 1859 a Villafranca. Quando il ministro della guerra generale FRANZINI gli fece sapere al campo di Roverbella che ABERCROMBY (l'ambasciatore britannico a Torino) lo consigliava di concludere con l'Austria una pace onorevole, servendosi della mediazione inglese, il re, in data del 7 luglio, rispose con una lettera di cui riproduciamo le parti essenziali: (ma sufficienti per far cambiare alcune pessime opinioni che sono state poi propinate sul Re sabaudo. Forse Carlo Alberto, si era resa conto di essere stato di fatto il burattino di un progetto massonico internazionale, e cambiò idea, ma da quel momento venne beffeggiato come "il re tentenna". Suo figlio Vittorio Emanuele, invece dopo di lui come vedremo in seguito- stette al gioco di Palmerston e Napoleone III. Pura propaganda era l'idea di "'unità d'Italia", tant'è che l'italiana Corsica (ricordava troppo il "corso") fu lasciata fuori, e Nizza e la Savoia furono tranquillamente barattate. Con le leggi Siccardi il Piemonte buttò la maschera e cominciò un'aggressione anticattolica senza precedenti. Ed era questo il progetto inglese. Protestantizzare l'Italia. Ci teneva soprattutto a distruggere l'Austria "papista". E per farlo spinse il Piemonte. E paradossalmente accadde che l'Austria cattolica si trovò contro la chiesa, e la Francia antipapista dalla Rivoluzione, si mise a fare la paladina del papato. Gli altri stati gli stati della penisola, anche i borbonici e perfino un contingente pontificio l'avevano capito prima di Carlo Alberto, e quando si accorsero che non si trattava di unire l'Italia in una confederazione secondo i progetti di Gioberti e Cattaneo, ma di star prestando man forte al progetto (imperialistico) inglese, tutti si ritirarono. E da quel momento le sole campagne vittoriose non furono quelle contro gli stranieri, ma furono quelle contro altri italiani: il Papa e il Sud. La Terza Guerra d'Indipendenza finì col disastro di Custoza e Lissa, malgrado l'Austria avesse offerto gratis il Veneto e il Trentino purché l'Italia si ritirasse dall'alleanza con la Prussia. Alla breccia di Porta Pia, dopo i bersaglieri, il primo ad entrare fu un carretto di Bibbie protestanti, tirato da un cane chiamato "Pio Nono". Tra i patti che Cavour (ma anche Mazzini) aveva fatto con gli inglesi, "padrini" dell'espansione piemontese, c'era anche l'appoggio alla divulgazione protestante contro l'odiato "papismo". Ricordiamo che il primo sindaco di Roma fu il massone Ernesto Nathan, figlio dell'amante inglese di Mazzini, il quale poté fare il sindaco della capitale d'Italia pur essendo cittadino inglese).

Torniamo alla famosa lettera di Carlo Alberto:

"Voi conoscete perfettamente il mio pensiero sugli ingrandimenti che io credo dobbiamo desiderare per il nostro paese, avuto riguardo soprattutto alle nostre finanze e alla forza effettiva che il nostro esercito può portare in battaglia. Dal momento che, noi non possiamo far conto su alcun alleato né d'altra parte da tempo non riceviamo un appoggio reale dalle truppe lombarde. Voi avete visto tutto quello che vi ho scritto in questi ultimi giorni e che dovrebbe togliere ogni illusione agli uomini che riflettono in buona fede. Credo dunque in coscienza che, se potremo ottenere con la mediazione inglese, la Lombardia fino all'Adige e insieme i Ducati, avremo fatto una campagna gloriosa; con uno Stato così piccolo com'è il nostro a confronto del colossale Impero Austriaco, si potrà dire d'aver conseguito acquisti superbi e quasi inauditi nella storia. Ecco, davanti a Dio, il mio intimo pensiero, e voi potete confidarlo al signor Abercromby. Desiderare di più, specialmente ora che l'arciduca Giovanni è stato messo a capo della Confederazione germanica, la quale si è dichiarata a noi avversa, è una temerarietà, quasi una pazzia. Significa voler dichiarare la perdita, la rovina per sempre della causa italiana, o l'intervento della Repubblica francese, la quale vorrà toglierci allora la Savoia e Nizza, e ci porterà i suoi principi (rivoluzionari) dai quali potremmo esser travolti".

Tre giorni dopo però il ministro PARETO dichiarava alla Camera: "Se vi fosse qualche trattativa di pace che non trattasse dell'evacuazione d'Italia dall'Austriaco, ognuno di noi domanderebbe le sue dimissioni".

Del resto, anche se il pensiero di Carlo Alberto fosse stato condiviso dagli altri, ormai (forse) era troppo tardi. La guerra aveva preso un altro indirizzo. Radetzky che sapeva benissimo la situazione militarmente critica dei piemontesi, mentre per lui era straordinariamente rosea, consigliò il suo governo di non fare alcuna concessione al nemico. Lui, con le sue armi, a Carlo Alberto avrebbe ripreso tutto, perfino quel paese (la Lombardia) che con i recenti negoziati gli si voleva lasciare. Radetzky più che fare un favore all'Austria, mandò all'aria tutti i progetti inglesi.

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