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La Prima Guerra d'indipendenza (Capitolo quarto)

Immagine del redattore: -Cas-Cas

Proprio il 7 luglio, lo stesso giorno in cui il re scriveva al FRANZINI la lettera di cui abbiamo riportato un brano nel precedente capitolo, si presentava a CARLO ALBERTO al campo di Roverbella e gli offriva il suo braccio un uomo che era vissuto quattordici anni in esilio e che oltre l'Oceano Atlantico aveva compiuto -narrano i suoi apologisti- gesta gloriose: GIUSEPPE GARIBALDI. Era giunto a Rio Janeiro nel principio del 1836 e prima aveva esercitato il corso tra questa città e Capo Fico, poi, schieratosi a difesa della piccola Repubblica di Rio Grande do Sul, aveva cominciato la sua carriera di corsaro (di stato) contro le navi del potente Brasile con un violento combattimento tra la sua goletta e due grossi navigli nemici. Ferito gravemente, sottoposto alla tortura dopo un tentativo di fuga e rimesso in libertà dopo parecchi mesi di prigione, era tornato ancora al servizio degli insorti riograndesi e, incaricato di organizzare e comandare una flottiglia, aveva costruito, armato ed equipaggiato due golette e con queste aveva ricominciato la guerra corsa contro la flotta brasiliana forte di trenta navi.

"Combattere per terra e per mare, - scrive il Guerzoni - oggi sottrarsi alla caccia di una flotta venti volte superiore, domani affrontare con un pugno di uomini nugoli di cavalieri; oggi lanciarsi all'arrembaggio di un vascello nemico e predarlo, domani lottare disperatamente contro l'uragano e scampar per miracolo da un naufragio; essere al tempo stesso marinaio, cavaliere, calafato, boaro; vivere alla ventura e in perpetuo; ambire, vincitore, unico premio alla vittoria, i sorrisi delle belle e ottenerli; conseguire, vinto, l'ammirazione di tutti i generosi; trovarsi ad ogni istante a faccia a faccia con la morte e sentirsi beato; non possedere che una striscia di terra su cui posare il capo, ed una tavola di barca su cui piantare il piede, e, ciò nonostante avere il corpo fiorente di salute e l'anima piena di fantasie giovanili"

Questa era stata la vita di Garibaldi per oltre quattro anni. Ma poiché le opinioni sono diverse se raccontate da due fazioni in eterna contrapposizione, riportiamo anche queste in una pagina a parte. E non solo in Italia il giudizio è diverso, ma dato che questo sito è sfogliato anche all'estero, dallo stesso Uraguay, dall'Argentina, dal Brasile, mi hanno scritto e le opinioni sono opposte. Chi lo ammira e chi lo detesta. Né più e né meno come in Italia. Combatté disinteressatamente per l'indipendenza del Rio Grande del Sud contro l'impero brasiliano e dell'Uraguay, si batté in Italia per l'Unità nazionale con tante contraddizioni, e finì la sua carriera di soldato nel 1870 difendendo contro i Prussiani quella stessa Francia che negli anni precedenti l'aveva oltraggiato, fatto arrestare, che gli aveva "rapinato" la sua Nizza. Di lui è stato scritto di tutto: "idealista senza ideologie", "eroe per antonomasia", "uomo della libertà, uomo dell'umanità" (Hugo), "il Che Guevara dell'800", e fra tanti altri titoli l "eroe dei diseredati", e proprio per questo presero le distanze i suoi contemporanei che allora avevano grandi interessi personali a combatterlo, a diffidare, oppure a dipingerlo come un pittoresco avventuriero. E' chiaro che i nobili, la borghesia, la classe media, hanno di Garibaldi tutta un'altra opinione. Ma come tutti sanno dietro ogni ideologia, c'è dietro una condizione economica di chi la professa. "Dimmi che opulenza o miseria hai e ti dirò di che partito sei". I diseredati non saranno mai dei conservatori, e questi non vorranno mai dividere con i diseredati se hanno ereditato da un avo di mille anni fa un castello, delle proprietà terriere, o un'industria.

Ma torniamo alla campagna garibaldina accennata sopra. Che fa parte dell'agiografia del nostro (ognuno poi si faccia l'opinione che crede). Il 17 aprile del 1839, assediato con dodici compagni nella fattoria Saladero di Galpon da centocinquanta cavalieri nemici, con la sua presenza di spirito e la sua astuzia, aveva saputo trarsi d'impaccio. Incaricato di assecondare con operazioni navali la spedizione del generale Canavarro nella provincia di Santa Caterina, e trovandosi con la flottiglia bloccato nella laguna di Los Patos, Garibaldi aveva fatto trainare due grossi lancioni fino al lago di Taraamnday e di là fino all'Oceano. Il 23 ottobre nelle acque d'Imbituba in un impari combattimento, tenendo in scacco tre navi, nell'assalto alla nave Rio Pardo, capitanata da un certo Manuel Duarte (che poi mori per le ferite riportate o forse per il crepacuore) conobbe (o si portò via) la sua bella moglie, Anita Riberas, (che non era uruguayana né argentina come molti libri scrivono, ma era brasiliana dello stato di Santa Catarina. Infatti in Brasile esiste un paese al quale hanno dato il nome di Anita Garibaldi, questo perchè era la città natale di Anita Garibaldi). Costretti i Riograndesi a sgomberare dalla città di Laguna, Garibaldi aveva protetto prima la difficile operazione di sgombero e quindi la faticosissima ritirata. Ritiratosi nel 1841 a Montevideo, dopo essersi distinto nella giornata di Curitybanos, nel ripiegamento su Lages, nella tormentata discesa dalla Serra al campo di Malacam e nell'assalto alla fortezza di S. Josè do Norte, era ridisceso in campo dopo breve riposo in difesa della Repubblica dell'Uruguay contro la grande Repubblica Argentina, Ricevuto il comando di tre piccole navi e l'ordine di andare ad accendere l'insurrezione nel Paranà, navigando per circa settecento miglia, Garibaldi aveva accettato l'audacissima impresa e dal luglio al novembre del 1842 l'aveva condotta a termine dopo infinite peripezie, numerosi atti d'audacia, immense difficoltà superate, lunghe settimane di difficile navigazione fluviale contrastata dalle artiglierie nemiche, faticose manovre per disincagliare navi e superare rapide e infine l'acceso combattimento navale e terrestre di Nuova Cava, durato tre giorni e tre notti. Durante questa guerra, a Garibaldi gli fu affidato, nel gennaio del 1842, da parte del diplomatico inglese William Gore Ouseley, il comando d'alcune navi, con le quali costituì una grossa banda formata quasi tutta da italiani, vestiti con una camicia rossa.

Richiamato a Montevideo, minacciata dal nemico, aveva assunto il comando della flottiglia e quello della Legione Italiana. Alla testa di questa e con al fianco l'amico Francesco Anzani, Giuseppe Garibaldi si era dato molto da fare, e per i locali si era coperto di gloria: l'8 giugno del 1843 aveva in un mirabile attacco alla baionetta respinto il nemico dall'altura del Cerro; il 17 novembre, in una sanguinosa battaglia aveva sbaragliato alle Tres Croces il nemico, il 24 aprile del 1844 aveva alla Boyada salvato la ritirata dei Montevideani contrattaccando impetuosamente i nemici superiori di numero, il 28 marzo del 1845 ancora al Cerro aveva combattuto con brillante successo. In questo periodo si iscrisse alla Massoneria Universale e precisamente nella loggia irregolare "L'asilo della Virtù", regolarizzandosi poi a Montevideo il 24 agosto 1844, nella loggia "Gli Amici della Patria", dipendente dal Grande Oriente di Francia. Palmeston, capo del governo inglese, era allora gran maestro della Massoneria e (alias Henry John Temple) fondatore dell'Ordine ebraico di Sion; l'uomo che avrebbe in sostanza dominato la politica estera britannica (e, in un certo senso europea) fino all'anno 1865.

Prescelto a capitanare un'ardita spedizione lungo il gran fiume Uruguay, Garibaldi aveva dato prove di valore da meritare l'appellativo di benemerito della Repubblica. L'occupazione di Colorica e dell'isola di Martin Garcia, la distinzione delle batterie costiere nemiche del Paranà, il vittorioso combattimento presso l'estancia di Rervidero, la sanguinosa battaglia di Tapeby e infine quella gloriosa del Salto di Sant'Antonio (8-9 febbraio 1846) aveva confermato la sua fama d'invincibile soldato e di geniale condottiero, che, varcato l'Oceano, aveva fatto palpitare di speranza il cuore degli Italiani.

Ad un tratto giunse al suo orecchio attraversando l'Atlantico una grande notizia: che Pio IX aveva concesso l'amnistia. Seguite da altre notizie sensazionali, di cui l'ultima era quella della rivoluzione siciliana dai primi di gennaio 1848. Garibaldi aveva deciso di rientrare in patria. Aveva prima spedito in Europa nel febbraio, GIACOMO MEDICI perché si accordasse con il MAGRINI e lo aspettasse in Toscana, ammonendolo: "Terrai presente soprattutto che lo scopo nostro è di recarci in patria, non per contrariare l'andamento attuale delle cose ed i Governi che le cose acconsentono, ma per aggregarci ai buoni e, d'accordo con loro, andare innanzi, per il meglio del paese".

Ovviamente, non sapeva ancora nulla delle giornate di Milano, di Venezia, dello Statuto di Carlo Alberto, e nemmeno che il Re il 24 marzo si era deciso a marciare contro gli Austriaci.

Il 15 aprile era partito da Montevideo con 63 legionari sul brigantino "Speranza". In un porto della Spagna, a Santa Pola, aveva saputo dell'insurrezione di Milano e di Venezia, della cacciata degli Austriaci, della guerra intrapresa da Carlo Alberto, del concorso degli altri principi italiani. A quel punto invece che verso le coste toscane, Garibaldi aveva diretto la prora verso Nizza per offrire il suo braccio al re di Sardegna. Lo stesso sovrano che lo aveva costretto a fuggire con una condanna a morte in contumacia, per "alto tradimento" essendo allora Garibaldi un appartenente alla marina sarda.

Sbarcato nella sua città natia il 21 giugno, quattro giorni dopo aveva fatto in pubblico la sua professione di fede: "Voi sapete che non fui mai partigiano dei Re; ma poiché Carlo Alberto si è fatto il difensore della causa popolare, io penso di recargli il mio concorso e quello dei miei camerati". Poi il 2 luglio, sbarcato a Genova, al "Circolo Nazionale" aveva confermato quanto aveva detto a Nizza; e fu -qui bisogna dirlo- realista come il Manin a Venezia:

"Noi dobbiamo fare ogni sforzo possibile perché gli Austriaci siano presto cacciati dal suolo italiano e non si abbia a sostenere una guerra di due o tre anni. Ma non possiamo ottenere quest'intento se ora non siamo molto uniti. Si dia il bando ai sistemi politici, non si aprano discussioni sulla forma di governo, non si sollevino partiti. La grande, l'unica questione del momento è la cacciata dello straniero e la guerra dell'indipendenza. Pensiamo a questo solo .... Io fui repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto si era fatto campione d'Italia, io ho giurato di ubbidirlo e seguire fedelmente la sua bandiera. In lui solo vidi riposta la speranza della nostra indipendenza; Carlo Alberto sia, dunque il nostro capo, il nostro simbolo. Gli sforzi di tutti gli Italiani si concentrino in. lui. Fuori di lui non vi può essere salute. Guai a noi se invece di stringerci tutti fortemente intorno a questo capo, disperdiamo le nostre forze in conati diversi ed inutili e, peggio, ancora, se cominciamo a spargere fra noi i semi di discordia".

Il 7 luglio, come già accennato, Giuseppe Garibaldi si recava a Roverbella, ma Carlo Alberto, che forse non credeva alle qualità del condottiero, formatosi fuori dalle caserme e dalle scuole di guerra, né poteva dimenticare che era stato un "traditore" del suo Regno; prendendo a pretesto le norme costituzionali, gli disse di rivolgersi ai suoi ministri. Una settimana dopo, a Torino, il ministro RICCI rifiutava di accogliere la richiesta di Garibaldi dicendo che il Governo non poteva considerare la possibilità di formare corpi volontari accanto a quelli dell'esercito regolare. Nessuno forse aveva dimenticato le sue passioni repubblicane, ed erano proprio queste che a Torino (e alcuni anche a Milano) diffidavano.

Disilluso ed offeso, riconciliatosi accanto al letto dell'ANZANI morente con il MEDICI che lo aveva accusato di voltafaccia al partito repubblicano, Garibaldi si recò a Milano e fu dal Governo provvisorio nominato maggior generale con l'incarico (finalmente si erano mossi a far qualcosa) di organizzare corpi di volontari. Il 18 luglio formerà il "Battaglione Italiano della Morte". (abbiamo rintracciato il regolamento per entrarvi, il giuramento, e la scheda da riempire per farne parte - vedi link sopra all'inizio Ma ormai era troppo tardi; gli avvenimenti volgevano male per l'esercito sardo e Garibaldi e i suoi volontari ben poco potevano fare a favore di questa prima guerra d'indipendenza italiana.

IL BLOCCO DI MANTOVA Sebbene fosse persuaso -la lettera molto realistica che abbiamo letto nella precedente puntata ne è la testimonianza- che solo una buona pace poteva farlo uscire con onore dalla guerra, vinto dalle continue pressioni che da ogni parte gli erano fatte, Carlo Alberto, il 13 luglio decise di riprendere l'offensiva, rivolgendo i suoi maggiori sforzi su Mantova, di cui ordinò il blocco.

In conseguenza di quest'ordine la 2a divisione si trasferiva da Goito a Belfiore e Cerese; la divisione lombarda del Perrone, la brigata Casale e un battaglione di cacciatori franchi si collocarono davanti al forte di Pietole; la divisione Visconti occupò il corso superiore del Mincio mettendo tre battaglioni a Valeggio e a Goito e con due presidiando Peschiera; la divisione, rinforzata con le compagnie Griffini e Longoni, occupò Castelbelforte; la divisione di riserva fu posta a Roverbella, Castiglione Mantovano e Canevole; il quartier generale rimase a Roverbella. A presidiare Villafranca erano poste le truppe toscano; la cavalleria comandata dal generale OLIVIERI, teneva una linea che, per Marengo, Malavicina, Quaderni, Rosegaferro, andava fino a Villafranca, e qui il II Corpo d'Armata si stendeva fino a Rivoli. Erano appena cominciate le operazioni per l'attacco a Mantova quando si seppe che il generale austriaco LIECHTENSTEIN con una brigata di cinquemila uomini si era recato a Ferrara per vettovagliare il presidio di quella cittadella. Contemporaneamente i conti LUDOVICO SAULI e PIETRO SANTAROSA, commissari piemontesi a Modena e a Reggio, considerando che gli abitanti del Ducato non erano disposti a difendersi nell'eventualità di un'invasione austriaca, chiedevamo soccorsi al re.

LA SECONDA FAZIONE DI GOVERNOLO II generale BAVA, che comandava le truppe incaricate del blocco di Mantova, con una brigata di fanti, un reggimento di cavalleria, una compagnia di bersaglieri e due batterie di cannoni mosse verso il Po per rendersi conto dello stato delle cose; ma quando giunse a Borgoforte seppe che il Liechtenstein era tornato da Ferrara sulla sinistra del fiume per Ostiglia e Governolo. Allora il Bava pensò d'impadronirsi di quest'ultimo villaggio, che, in mano degli Austriaci rappresentava una grave minaccia per l'estrema sinistra dello schieramento dell'esercito sardo.

L'operazione fu compiuta il 18 luglio. I bersaglieri, al comando del capitano LIONS, furono mandati oltre il Mincio per cogliere alle spalle il presidio del villaggio composto di millecinquecento uomini; il resto delle truppe fu diviso in due colonne, la prima comandata dal generale TROTTI, la seconda dallo stesso Bava, e dovevano insieme attaccare il villaggio di fronte. Gli Austriaci, assaliti dal grosso dei Piemontesi, dopo aspra resistenza si ritrassero oltre il fiume, ma, udendo il suono delle trombe dei bersaglieri mentre si disponevano a nuova difesa, per non esser presi tra due fuochi indietreggiarono ancora e, giunti in un prato, si disposero in quadrato. Fulminato dai cannoni e caricato vigorosamente dalla cavalleria sarda il nemico cedette le armi.

Il vittorioso combattimento costò pochissime perdite ai piemontesi: ventitré feriti e una mezza dozzina di morti, tra cui i tenenti Gattinara ed Appiotti. Gravissime furono invece le perdite austriache, che, oltre i morti e i feriti, lasciò sul campo cinquecento prigionieri, due cannoni, molte armi, molti cavalli e la bandiera del reggimento.

COMBATTIDIENTI DI RIVOLI E DELLA CORONA

Il combattimento di Governolo, sebbene coronato dal brillante successo, fu più dannoso che utile ai piemontesi, perché allungò di un'altra diecina di chilometri lo schieramento del nostro esercito che, dalle alture di Corona e Rivoli si stendeva fino alla confluenza del Mincio con il Po ed era ovunque, ma specialmente alla sinistra, debole ma soprattutto non coordinato. Di questa debolezza pensò di approfittare il Radetzky, che già disponeva di 132.000 uomini, 250 pezzi d'artiglieria e 3 fortezze dove andare eventualmente a trincerarsi. Concepì il piano di impadronirsi di S. Giustino, Sona e Sommacampagna, spingersi fino al Mincio, tagliare i corpi del DE SONNAZ e del BAVA e batterli separatamente. Dal Trentino il generale THURN, attaccando l'estrema sinistra sarda, doveva impedire questa che accorresse in aiuto del centro.

La mattina del 22 luglio il generale THURN scese dal monte Baldo con due colonne, una mosse contro Spiazzi e la Corona, e dopo un accanito combattimento i pochi soldati del maggiore S. VITALE furono costrette dallo schiacciante numero dei nemici a sloggiare; l'altra per Incanale marciò contro Rivoli, dove il colonnello DAMIANO con quattromila uomini prima resistette agli assalti di oltre diecimila Austriaci, poi sopraggiunto il DE SONNAZ con due battaglioni e mezza batteria, il nemico fu nettamente respinto. Nonostante la vittoria, il De Sonnaz, sapendosi fronteggiato da forze notevolmente superiori alle sue, e che il giorno dopo avrebbero senza dubbio riattaccato e con maggior successo, e sospettando che l'azione su Rivoli era solo dimostrativa, all'alba del 23 abbandonò quelle lontane posizioni e ritirò le truppe a Cavajon, Calmasino e Sandrà.

Intanto il RADETZKY, lasciato a difesa di Verona il generale RAYNAU, la sera del 22 era uscito dalla piazza con il grosso del suo esercito (quarantamila uomini e centocinquanta cannoni) diviso in tre corpi comandati dai generali D'ASPRE, WRATISLAW, WOCHER, che dovevano assalire, durante la notte, la linea piemontese da S. Giustina a Custoza. Era questa difesa da soli seimila uomini, comandati dal generale BRAGLIA di CASALBORGONE, con il 1° reggimento della Savoia a Palazzuolo, a S. Giustina e nelle cascine di Colombara e Colambarolo, il 2° reggimento e un battaglione di Parmigiani a Sona e all'Osteria del Bosco, difesa da quattro pezzi, e un battaglione del 13° Pinerolo e un reggimento toscano comandato dal BELLUOMINI a Sommacampagna.

BATTAGLIA DI CUSTOZA

Un fortissimo uragano fece differire l'attacco al mattino del 23 luglio. Lo sforzo maggiore del nemico fu fatto a Sommacampagna dove i Toscani e i Piemontesi resistettero valorosamente per ben tre ore, ma, sopraffatti dal numero, dovettero poi ripiegare su S. Giorgio in Salice, ma quasi raggiunti dagli usseri della brigata Liechtenstein, furono costretti a proseguire la ritirata fino a Cavalcaselle, giungendovi la sera insieme con le truppe che avevano abbandonato Rivoli.

All'Osteria del Bosco, a S. Giustina e a Sona i Piemontesi combatterono con grandissimo valore, ricacciando alla baionetta da qualche punto il nemico, il quale pur di vincere, ricorse anche a vergognosi stratagemmi. Vittima di uno di questi fu il prode generalo D'ARVIENOZ, il quale, andato incontro a un grosso reparto nemico che sventolava bandiera bianca e gridava "Viva l'Italia ! Siamo fratelli !", fu circondato da forze schiaccianti e, dopo un'accanita difesa, cadde in mano del nemico. Ferito al petto e al ginocchio e rovesciato da cavallo, all'intimazione d'arrendersi il D'Arvienoz, gettando a terra la spada, gridò sdegnosamente: "Io non la rendo ai traditori !"

RITIRATA DELL'ESERCITO SARDO Caduta Sommacampagna, anche la resistenza di Sona, dovette cessare e il generale BROGLIA ordinò la ritirata di tutta la linea verso Peschiera. Così, verso il mezzogiorno del 23 il Radetzky era già padrone di tutte le alture da S. Giustina a Custoza e, pur avendo subito gravi perdite, prima di sera si spingeva fino al Mincio. A guardia del fiume stava la divisione di riserva comandata dal barone VISCONTI, la quale all'avvicinarsi del nemico, passava sulla destra del Mincio, rompeva i ponti di Borghetto e di Monzambano e collocava un battaglione davanti a Salionze per impedire agli Austriaci di traghettare in quel punto. Il DE SONNAZ, che si trovava a Cavalcaselle, la mattina del 24 alla testa di circa dodicimila uomini si mise in marcia in direzione di Monzambano e Ponti per sostenere la divisione Visconti, non credendo che il Radetzky, minacciato di fianco da Carlo Alberto, pensasse seriamente di forzare il passaggio del Mincio. Invece gli Austriaci impadronitisi di Salionze, stavano gettando un ponte di barche presso i Molini e riuscivano a compiere l'operazione nonostante la pronta ma non sufficiente reazione di due battaglioni della riserva. Allora il De Sonnaz, che era giunto a Monzambano, saputo che il nemico era passato sulla sponda destra, mandò il 14° fanteria, la sezione toscana e la compagnia Cassinis a Ponti, ma queste truppe, giunte sul posto, proprio mentre la riserva presa dal panico l'abbandonava, non riuscendo a sostenersi da sola sostenere ripiegarono su Peschiera e così il De Sonnaz si vide costretto a rinunciare alla controffensiva su Molini e Ponti e a ritirarsi a Volta.

CARLO ALBERTO fin dalla sera del 23, aveva riportato il suo quartier generale da Marmimolo, dove l'aveva messo il 18, a Villafranca. Qui fu riunito il consiglio di guerra la mattina del 24 e, scartata l'idea di ritirarsi sulla destra del Mincio, fu deciso di attaccare il nemico sulle stesse posizioni che aveva conquistate il giorno precedente, quindi, convergendo a sinistra, cacciarlo sul fiume, tagliarli la ritirata di Verona e schiacciarlo. Il piano era buono, ma perché riuscisse occorreva impiegare il maggior numero possibile di truppe, togliere l'inutile blocco di Mantova ed effettuare la congiunzione con il De Sonnaz. Invece questa manovra non fu possibile a farsi e il blocco fu mantenuto. Alle due pomeridiane del 24 luglio Carlo Alberto usciva da Villafranca e, lasciato a presidio della città il MANNO con i volontari toscani e due battaglioni della Pinerolo, ordinato al SOMMARIVA di sorvegliare la strada di Valeggio, e al generale OLIVIERI che comandava ventisette squadroni, di lasciare una brigata al centro e di perlustrare sulla destra il terreno per tutelare il fianco della fanteria, il Re si avviò verso la valle di Staffalo con il grosso dell'esercito. Questo era diviso in due colonne: una, composta delle brigate Guardie e Cuneo, comandata dal duca di Savoia (VITTORIO EMANUELE) l'altra, formata dalla brigata Piemonte, al comando del DUCA DI GENOVA. Facevano da avanguardia una compagnia di bersaglieri ed una di volontari lombardi; seguivano cinquantasei cannoni. La brigata Aosta era rimasta di riserva presso Villafranca. Quantunque gl'imperiali avessero il vantaggio delle posizioni e la superiorità numerica, i Piemontesi assalirono con tanto impeto e combatterono con tanto valore che verso il tramonto furono padroni di tutte le alture attaccate, e con perdite piuttosto lievi: cinquantaquattro feriti e sedici morti, tra i quali il maggiore BAUDI di Selve; mentre più gravi furono quelle austriache: cinquanta morti, centoquattro feriti, millecentosessanta prigionieri, di cui quarantasei ufficiali, e due bandiere.

Lo scontro del 24 luglio, che prese il nome di BATTAGLIA DI STAFFALO, avrebbe dato ben altri risultati all'esercito sardo se questo conquistava, quel giorno stesso - e lo poteva fare -Valeggio, che era il perno dell'intera impresa. (Chi conosce il luogo, Valeggio e Borghetto, che sono due incantevoli località, oggi molto frequentate dai turisti, e con ottimi ristoranti, non può non correre ai giorni di questa battaglia - e di tante altre battaglie, che si sono svolte sui formidabili bastioni del ponte sul Mincio).

Invece si rimise la conquista di questa posizione il giorno dopo, impiegando le medesime truppe stanche ed affamate; e intanto il Radetzky ebbe il tempo di rafforzarsi, di far giungere un'altra brigata da Verona; di richiamare le truppe che erano passate di là del Mincio, serbando però il possesso dei passi di Salionze, Monzambano e Valeggio; e di radunare sotto di sé un numero di truppe così rilevante da assicurarsi la vittoria.

Per le operazioni del 25 Carlo Alberto e il generale Bava avevano fatto il seguente piano: il DE SONNAZ, varcando il Mincio ai Molini di Volta, doveva portarsi per Borghetto sopra Valeggio e assalir questo villaggio alle otto del mattino; quindi doveva poi aiutare le truppe dell'altro corpo che operava sulla sponda sinistra. Queste dovevano agire in tre colonne: la prima, composta della brigata Aosta, guidata da CARLO ALBERTO e assecondata dal BAVA, doveva assalire Valeggio a sinistra; la seconda, formata delle brigate Guardie e Cuneo al comando del DUCA DI SAVOIA, avanzando da Custoza, doveva puntare su Salionze per favorire l'azione dell'Aosta; la terza, che comprendeva la brigata Piemonte e una quindicina di squadroni ed era comandata dal DUCA DI GENOVA, partendo da Berettara e Sommacampagna, doveva puntare su Oliosi.

CARLO ALBERTO assalì Valeggio alle 8 del mattino, ma i due figli fratelli principi tardarono a muoversi perché i viveri non erano ancora giunti da Villafranca e con il loro indugio (ma diciamo pure assenza sul posto concordato) diedero tempo al generale D'ASPRE, che li fronteggiava con forze doppie, di capire cosa volevano fare i piemontesi e di prendere lui l'iniziativa dell'offensiva contro le posizioni di Berettara, Sommacampagna e Custoza.

Il combattimento, impegnatosi verso le dieci, al centro e alla destra dell'esercito sardo, in poco tempo raggiunse una violenza straordinaria e si propagò su tutta la linea. Poco riuscì a fare la sinistra, tenuta a rispetto dai cannoni di Valeggio e non coadiuvata dalle truppe del De Sonnaz, il quale, ricevuto in ritardo l'ordine di muoversi, avvertì che non sarebbe giunto prima delle sei del pomeriggio; intanto entrate in campo le truppe dei due principi combatterono con superbo valore. Il DUCA DI GENOVA, a Sommacampagna, respinse per tre volte il nemico numerosissimo alla baionetta; il DUCA DI SAVOIA, al centro, riuscì inutilmente ad impadronirsi di un'altura presso Valeggio, perché da solo e senza aiuti dal Bava, non poté ad impedire agli Austriaci di occupare Custoza.

A quel punto fu difficile tenere anche le altre posizioni e Carlo Alberto, alle cinque pomeridiane, ordinò la ritirata su Villafranca, che fu fatta in buon ordine, senza che gli austriaci stanchi dalla lotta, osassero molestarla.

I Piemontesi pur non proprio sconfitti del tutto, erano stati vinti dal numero, dall'imperizia d'alcuni capi, quindi non tanto dal valore del nemico. L'esercito sardo ebbe 1339 uomini fuori combattimento, gli Austriaci 1320.

Durante la notte, poiché la posizione di Villafranca era insostenibile, le truppe che avevano preso parte alla battaglia di Custoza, i Toscani del Laugier e le truppe giunte da Governolo ebbero ordine di trasferirsi a Goito. Il movimento di ritirata fu eseguito in ordine né il nemico cercò di recare molestie. Partirono prima i feriti, i prigionieri e i convogli con la scorta di due battaglioni della brigata Pinerolo e della brigata toscana. Le brigate Guardie e Cuneo passarono per Mozzecane, Roverbella e Marengo; la Piemonte e l'Aosta per Quaderni e Massimbona. A protezione delle truppe in ritirata furono poste a Mozzecane la cavalleria e l'artiglieria da campagna, a Roverbella il 17° fanteria, tra Marengo e Goito la brigata sopraggiunta da Governolo. Da retroguardia fecero due battaglioni della Cuneo comandati dal duca di Savoia. Intenzione del generale BAVA era di richiamare tutte le truppe da Mantova, spiegarle sulle alture di Volta, Cavriana e Solferino e costringere gli Austriaci ad accettar battaglia con il Mincio alle spalle. Le truppe del DE SONNAZ, che il giorno prima erano a Volta, dovevano rimanervi; invece, giungendo a Goito, il Re e il Bava le trovarono là. Il De Sonnaz, nel pomeriggio del 25, mentre si preparava a muovere su Valeggio, aveva ricevuto un biglietto, scritto a matita e firmato dal colonnello FECIA di COSSATO, sottocapo di Stato Maggiore Generale, con il quale gli si ordinava di sospendere la marcia su Valeggio, di sgombrare Volta e ritirarsi a Goito. Questo movimento egli lo aveva compiuto durante la notte dal 25 al 26 luglio. Il COSSATO poi in seguito negò di avere scritto il biglietto, del quale alcuni attribuirono la paternità al Radetzky, altri più maligni allo stesso Carlo Alberto. Il De Sonnaz sarebbe voluto ritornar subito a Volta per giungervi prima che l'occupasse il nemico; ma, essendo le sue truppe stanche e senza cibo, d'accordo con il Re e col Bava, differì la partenza alle quattro pomeridiane; fu fatale. Quando il De Sonnaz, alle sei del pomeriggio, giunse alle falde della collina di Volta, questa era già in potere dei soldati del LIECHTENSTEIN. La brigata Savoia pur avvicinandosi la sera, andò subito all'assalto e riuscì a cacciare il nemico dalla parte alta della terra; ma poi giunti durante la notte al Liechtenstein rinforzi da parte del D'Aspre, i piemontesi dovettero abbandonare le posizioni occupate.

Albeggiava, quando le truppe del De Sonnaz, che avevano ridisceso le falde della collina, furono raggiunte dalla brigata Regina mandata (anche questa in ritardo) da Goito. Allora il generale volle tentare un nuovo assalto, ma il tentativo non riuscì e ripiegarono su Cerlungo. La cavalleria austriaca volle disturbare la ritirata, però, assalita dai cavalleggeri del Savoia e del Genova, rinunciò al tentativo.

L'insuccesso di Volta -dovuto a tutti questi malintesi, ritardi, - fu l'ultimo e più grave colpo al morale dei soldati piemontesi. Carlo Alberto, costatate le condizioni del suo esercito e visto che non era possibile non solo tentare la riscossa ma neppure sostenere subito dopo un nuovo urto nemico, mandò, il 27 mattina, al Radetzky i generali Bes e Rossi e il colonnello La Marmora per trattare una tregua. La risposta venne alle cinque pomeridiane. Il nemico avrebbe sospeso le operazioni a patto che Carlo Alberto si ritirasse oltre l'Adda, consegnate Venezia, Peschiera, Rocca d'Anfo e i Ducati, e posti in libertà tutti gli ufficiali prigionieri.

PROCLAMA DI CARLO ALBERTO ALLE POPOLAZIONI DELL'ALTA ITALIA Erano condizioni inaccettabili e il re ordinò il ripiegamento di tutto l'esercito dietro l'Oglio. Da Bozzolo egli lanciò alle popolazioni dell'alta Italia il seguente proclama:

"Dopo vari combattimenti, nei quali il nostro esercito, nonostante l'inferiorità delle forze, seppe ottenere con mirabile coraggio non pochi successi, sopraffatto dal nemico, sfinito dalla stanchezza per le continue fazioni sotto un calore eccessivo e per la mancata provvista di viveri, perdette e ripiegò, ma in definitiva non riuscì a conservare le posizioni conquistate lungo il Mincio; accerchiato nei dintorni di Goito, si trovò ridotto ad una di quelle crisi terribili, nelle quali un supremo sforzo ha per effetto orrende stragi. In queste gravi circostanze; che premevano il nostro cuore come Re e come capo di quel prode e ben amato esercito, sentito un consiglio di guerra, cercammo di porre un termine a tanto spargimento di sangue con il proporre al nemico una sospensione d'armi. Ma le condizioni poste furono tali da metterle nemmeno in discussione, dovendo esporci con voi e a compromettere l'onore e l'interesse della patria. Italiani ! Armatevi e provvedete al pericolo con l'energia che il pericolo aumenta nei forti. Eredi di tante glorie, preferite l'ultimo sacrificio all'umiliazione ed alla perdita della vostra indipendenza. L'esercito, sostenuto dall'amor patrio in mezzo ai dolori ed alle disgrazie è pronto ancora a dare per la patria quanto gli avanza di sangue, e spera che la Provvidenza non ci abbandonerà nella, difesa della santa causa cui è consacrata la mia vita e quella dei miei figli".

Ai soldati indirizzò nello stesso tempo quest'altro proclama: "Le mirabili prove di coraggio nel combattimento, di forza nel sopportare i disagi che avete dato in questi ultimi giorni, mi hanno commosso profondamente. Il nemico pagò assai caro la conquista delle nuove posizioni: nella nostra ritirata portiamo duemila prigionieri e non si può vantare di un solo trofeo. Alla vista delle privazioni e degli stenti derivati dalla mancanza dei viveri, al pensiero di lasciar la Lombardia aperta a incursioni barbariche, l'animo mio cedette all'idea di cercare la sospensione delle ostilità; ma le condizioni che mi si proponevano, erano tali che ognuno di voi avrebbe dovuto arrossirne. L'onore dell'armata risplende in faccia a tutta l'Europa, nessuno potrà strapparglielo giammai, ed il vostro re ne sarà sempre geloso sostenitore. Fra brevi giorni ritorneremo a fronte di quel nemico, che molte volte abbiamo visto fuggire dinnanzi a noi: fra pochi giorni lo faremo pentire della sua audacia. Quei pochi che sregolatamente si sono sbandati, riprendano subito le loro file. Io conto su di voi con fiducia, o figli prediletti della patria, che versate il sangue per la sacra causa dell'indipendenza italiana".

Neppure la linea dell'Oglio era possibile tenere con un esercito così demoralizzato. Occorreva indietreggiare ancora e andare a schierarsi sulla destra del Po o sulla destra dell'Adda. Senza dubbio la "linea del Po" era "migliore militarmente", perché l'esercito avrebbe avuto modo di rimettersi dalle sofferte fatiche e ingrossarsi con i battaglioni di riserva dei Ducati e delle Legazioni; avrebbe potuto tener fronte al nemico sulla Trebbia o sulla Nure se questo fosse passato sulla destra del fiume, ed avrebbe pure costituito una grave minaccia per il fianco sinistro dell'esercito austriaco avanzante in Lombardia; ma una malaugurata vittoria austriaca vicino ad Alessandria sarebbe stata fatale al Piemonte. Mentre, a favore della "linea dell'Adda", più vicina, e più forte per le difese di Pizzighettone, Lodi o Cassano, e, per un'eventuale ritirata, vicina ai ponti di Piacenza e di Pavia, era "migliore politicamente" perché copriva, infatti, la Lombardia, che qualora abbandonata per andare invece sul Po Carlo Alberto temeva di esser "tacciato di tradimento" e di alienarsi l'animo delle popolazioni. Il Re di Sardegna, il quale, purtroppo nella condotta della guerra guardava molto alle ragioni politiche, scelse la linea dell'Adda e, riuscita vana la speranza di fermarsi alcuni giorni a Cremona, vi condusse il 31 luglio l'esercito, ponendo il quartier generale a Codogno. Tre giorni prima, il 28 luglio, si era finalmente costituito il nuovo ministero sotto la presidenza di GABRIO CASATI che aveva voluto come suo collaboratore VINCENZO GIOBERTI. Nell'illusione che l'esercito poteva in poco tempo ricomporsi sulla destra del Po, i nuovi ministri (avrebbero dovuto farlo 4 mesi prima!) avevano chiamato sotto le armi cinque classi di riservisti e cinquantasei battaglioni di guardia nazionale e il 30 luglio, conosciute le condizioni poste dal Radetzky a Carlo Alberto per l'armistizio, da un canto avevano pregato l'ambasciatore inglese Abercromby di avviare nuove trattative con il comando austriaco, dall'altro avevano spedito a Parigi il marchese ALBERTO, affinché con il ministro BRIGNOLE già sulla Senna, sollecitasse l'intervento della Francia.

L'ULTIMA BATTAGLIA

Il 1° agosto, il generale AIX DI SOMMARIVA, che con la 1a divisione si trovava a Grotta d'Adda, invece di contrastare, come aveva ricevuto ordine, il passo al nemico abbandonava il posto assegnatogli e si metteva in marcia verso Piacenza. Crollava così stoltamente anche la linea dell'Adda, sulla quale Carlo Alberto avrebbe voluto combattere l'ultima battaglia di quella campagna per vincolare, con quel gesto d'onore, alla sua dinastia il destino di Milano.

Opponendosi al Bava, che consigliava di passare il Po, il re, poiché sulla linea dell'Adda non si poteva far più assegnamento, decise di recarsi con l'esercito sotto le mura di Milano per tentarne la difesa, scrivendo quel giorno stesso ai ministri di avere scelto "il partito meno militare, ma più nobile".

Intanto a Milano si vivevano giornate di grandissima ansia. La sera del 26 luglio, saputa la notizia della sconfitta a Custoza, il governo provvisorio, d'accordo con i generali LECHI e SOBRERO, aveva stabilito d'inviare in soccorso del re i cinquemila uomini che costituivano le sole uniche truppe lombarde disponibili, e la mattina del 27, conosciuta la ritirata del Mincio, era stato affidato al generale ZUCCHI il comando della guardia nazionale e si era formato un Comitato di pubblica difesa. A far parte del quale erano stati chiamati il generale MANFREDO FANTI, reduce dalla Spagna, il dottor PIETRO MAESTRI e l'avvocato FRANCESCO RESTELLI. Il Comitato, mentre la Consulta inviava a Parigi il marchese ANSELMO GUERRIERI GONZAGA e GIULIO CARCANO per chiedere l'intervento armato della Francia, postosi all'opera, aveva ordinato un prestito forzoso di quattordici milioni, aveva proibito la partenza dei cittadini da Milano, aveva preso severi provvedimenti contro i funzionari che abbandonavano il loro posto e contro le persone che diffondevano notizie allarmanti; e per assicurare la difesa della città si era dato a raccogliere armi, munizioni e vettovaglie, non tralasciando di suscitare con manifesti infuocati l'entusiasmo dei cittadini:

"Risorgiamo all'ardore, all'impeto delle cinque immortali giornate. Erigiamo di nuovo le barricate, tagliamo i ponti, gli argini, le strade: mostriamo che sappiamo resistere alla sventura e che, se una forza preponderante ci sovrasta, siamo meritevoli dei soccorsi e delle simpatie di tutta l'Europa".

E ai parroci: "Sul pergamo, sulle piazze, da per tutto ove il popolo si raccoglie, mostratevi, predicate, incoraggiate .... Fate suonare le campane incessantemente per rinnovare al barbaro i terrori delle giornate di marzo .... Traete all'ospedale, alle ambulanze a recarvi la consolazione e il ristoro, a riportare salutevoli documenti per tutti quelli che anelano emulare i loro valorosi fratelli. Traete voi stessi e mandate vostri zelanti cooperatori a predicare la guerra santa nei templi più frequentati della città e delle campagne, sulle piazze, sulle vie. Intimate pubbliche preghiere ad invocare l'aiuto supremo sull'armi nostre ritemprate dalla sventura, su questo paese prescelto dalla Provvidenza a preparare le sorti d'Italia".

Inoperosi non stavano il MAZZINI e il GARIBALDI e l'uno e l'altro lanciavano appelli ai giovani perché accorressero ad arruolarsi per la difesa della patria: "La guerra ingrossa, i pericoli aumentano - scriveva in un proclama il 27 luglio GIUSEPPE GARIBALDI alla gioventù. - La patria ha bisogno di voi. Chi v'indirizza queste parole ha combattuto per onorare come meglio poteva il nome italiano in lidi lontani; è accorso con un pugno di valenti compagni da Montevideo per aiutare la vittoria della patria o morire su terra italiana. Egli ha fede in voi; volete, o giovani, averla in lui? Accorrete; concentratevi attorno a me. L'Italia ha bisogno di dieci, di ventimila volontari: raccoglietevi da tutte le parti in quanti più siete, e alle Alpi! Mostriamo all'Italia, all'Europa che vogliamo vincere e vinceremo".

Il 30 luglio GARIBALDI fu mandato a Bergamo partendo da Milano con la sua legione di volontari formata dai settanta legionari di Montevideo, da quattrocento uomini del battaglione pavese, da seicento del battaglione vicentino, da centocinquanta liguri, da trecento del battaglione Anzani comandato dal Medici e da un drappello di cavalieri. Il l° agosto entrava a Bergamo dove si univano a lui i settecento bergamaschi e comaschi del battaglione CAMOZZI e si preparava a difendere il corso superiore dell'Adda da Lecco a Cassano. Quello stesso giorno da Milano si ordinava la leva in massa di tutti gli uomini dai 18 ai 40 anni: "Ognuno che ha un fucile deve portarlo con sé con tutte le munizioni che possiede. Quelli che non possono partire devono cederle a quelli che partono. Chi non ha armi marci pure con gli attrezzi da muovere la terra e spianare alberi, falci, scuri, vanghe, zappe, ecc. Dove le guardie nazionali sono costituite in compagnie e battaglioni organizzati marceranno con i loro ufficiali, bandiere e tamburi. L'ufficiale o sottufficiale superiore in grado che si trovasse presente n'assuma il comando. Dove le guardie nazionali di un comune non sono ancora organizzate con i rispettivi ufficiali, saranno guidate da chi sarà nominato dal Comitato della leva. Ogni comune dovrà fornire il pane per una settimana alle guardie nazionali che marciano, sia con utensili, sia con le armi .... Non è obbligatorio alcuna uniforme e basterà che ciascun uomo porti una croce rossa al petto .... Il servizio durerà per i pochi giorni del pericolo dell'invasione del territorio .... La marcia comincerà non più tardi delle ore 24 dopo la pubblicazione del presente decreto nel comune, e sarà inaugurata dal suono a stormo delle campane, annunciatore ad un tempo di festa per un popolo ridestato al sacro entusiasmo della guerra nazionale e di sterminio per il barbaro nemico".

Il 2 agosto giunse al quartier generale una deputazione lombarda per informare il re che il popolo milanese era risoluto a difendersi, e per pregarlo di mandare l'esercito sotto le mura della città. Faceva parte della deputazione il generale MANFREDO FANTI, il quale, pratico com'era delle cose di guerra, capì subito che l'esercito avrebbe meglio difeso Milano alla destra del Po che non sotto le mura e, d'accordo con il Bava, cercò di persuadere il sovrano di trasferire le truppe a Piacenza; ma Carlo Alberto rispose che oramai era troppo tardi per revocare gli ordini dati e non bisognava disperare.

Quel medesimo giorno il Governo provvisorio di Lombardia annunziava con un proclama di essersi trasformato in Consulta straordinaria e di avere rimesso i poteri al generale ANGELO OLIVIERI, al marchese MASSIMO CORDARO DI MONTEZEMOLO e al nobile GAETANO STRIGELLI, regi commissari. Rimaneva però in funzione il Comitato di difesa che lavorava a preparare opere di difesa aiutato dagli ufficiali piemontesi CADORNA e PETTINENGO. L'esercito regio giunse a Milano il giorno 3 agosto e si dispose a semicerchio fuori della città con la destra appoggiata al Naviglio di Pavia e la sinistra a Porta Orientale. L'estrema destra era formata della 2a divisione, la quale occupava la Chiesa Rossa e per Castellazzo, Vigentino, Nosedo e Gamboloita, si univa al centro, costituito dalla divisione Broglia. Questa si protendeva a sinistra per Besana, Calvairate e Senavra legandosi alla 4a divisione stanziata alle Cascine Doppie e a Loreto. La divisione di riserva, comandata dal duca di Savoia, fu posta sulla strada di circonvallazione a Porta Romana e Porta Tosa, verso il centro della linea, per esser pronta ad accorrere dove in nemico avrebbe più minacciato.

La divisione Lombarda, comandata dal PERRONE e ridotta per le diserzioni a poco più di millecinquecento uomini, collocò le sue avanguardie a Crescenzago collegandosi per Ponte Seveso alle milizie comandate dal FANTI, consistenti in un battaglione di riserva delle Guardie, in uno del 18° reggimento, in duecento Polacchi dell 'ANTONINI e in quattromila reclute lombarde cui dovevano aggiungersi tremila guardie nazionali sotto lo ZUCCHI. L'artiglieria lombarda, con venti cannoni e sei obici, era distribuita alle porte settentrionali ed occidentali; la cavalleria sarda, eccettuati alcuni drappelli dislocati presso le divisioni, era concentrata sulla piazza d'armi insieme con due batterie a cavallo. Il re alloggiava in un modesto albergo all'insegna di San Giorgio, fuori Porta Romana.

Gli Austriaci comparvero nelle vicinanze di Milano la mattina del 4 agosto. La battaglia incominciò verso le 10 alla Gamboloita divenne subito generale: una battaglia senza un piano, senza unicità di comando, senza collegamenti; un insieme di zuffe sanguinose tra i campi, accanto alle case dei sobborghi, presso i fossi, vicino a difese improvvisate. La brigata Casale, che per prima aveva ricevuto l'urto nemico, resistette due ore alla Gamboloita, poi sopraffatta, si ritrasse alla Casa Bianca, dove con l'aiuto di un battaglione delle Guardie combatté valorosamente fino a notte. Davanti a Besana e a Boffalora la divisione Broglia resistette fino alle cinque di sera. Pioveva a dirotto, tuonava e le case della campagna circostante bruciavano sinistramente. Carlo Alberto si tenne per tutta la giornata nei punti dove maggiore era il pericolo. Forse cercava una morte gloriosa sul campo di battaglia e invece rimase illeso mentre attorno a lui caddero parecchi ufficiali tra cui il capitano Avogadro e il tenente Gazzelli. La giornata si chiuse con un bilancio doloroso. Gli Austriaci subirono quaranta morti, duecento feriti e settantatrè dispersi; gli Italiani quarantadue morti, duecentoventotto feriti e centoquarantasei prigionieri.

A sera fatta, mentre suonavano le campane, si costruivano barricate e dappertutto regnava una confusione grandissima, Carlo Alberto entrò in Milano con l'animo lacerato dallo sconforto e prese dimora al palazzo Greppi, dove subito dopo tenne consiglio di guerra. Tenuto conto che scarseggiavano i viveri e le munizioni e che ostinandosi in una difesa inutile si procurava danno alla città senza speranza di bene, si giunse nella determinazione di offrire la capitolazione a patto però che fosse accordato un indulto ai cittadini e si lasciasse libera la ritirata oltre il Ticino all'esercito sardo e a tutti coloro che volevano seguirlo. Alle 9 pomeridiane del 4 agosto furono inviati al Radetzky i generali LAZZARI e ROSSI, accompagnati dal vice console inglese CAMPBELL e dal segretario della legazione francese REISET. Gli inviati tornarono da San Donato, dov'era il quartier generale austriaco, alle sei del mattino successivo. Il Radetzky aveva accordato l'armistizio alle seguenti condizioni: "L'esercito sardo doveva sgombrare entro due giorni Milano e la Lombardia; ai cittadini maggiormente compromessi si concedevano dodici ore di tempo per lasciare la città; alle quattro e mezza del pomeriggio del 5 doveva avvenire lo scambio delle ratifiche; al mattino del 6 gli Austriaci dovevano ricevere la consegna di Porta Romana e al mezzogiorno il maresciallo sarebbe entrato in città con l'esercito".

TUMULTI MILANESI CONTRO CARLO ALBERTO

La mattina del 5 agosto, ratificata la convenzione, il re affidò l'incarico ai generali SALASCO, Bava e Olivieri di esporre alla Congregazione municipale, al Comitato di difesa e allo Stato Maggiore della Guardia nazionale i motivi che lo avevano costretto a scendere a patti con il nemico. Fatta la comunicazione, i più mostrarono di esser persuasi della necessità della convenzione, la stesso generale ZUCCHI, interrogato da alcuni se avrebbe abbandonato Milano, rispose che senza l'esercito la città non avrebbe potuto difendersi. Chi protestò vivamente fu l'avvocato RESTELLI, il quale affermò che: "il Comitato di pubblica difesa non essendo stato interpellato, lasciava la responsabilità di quell'atto e si asteneva dal discuterne i motivi addotti; non esser vero però che ci fosse difetto di viveri e di denaro, perché vi erano farine per otto giorni; e il Comitato aveva disposto che in quello stesso giorno e nei seguenti si versassero nelle casse quattro milioni di lire del prestito forzato; perciò come membro del Comitato di pubblica difesa, come cittadino e come italiano, protestava contro quel patto vergognoso".

E aggiunse: "Milano, lasciata dalle armi sabaude, dovere resistere fino all'estremo; di essere la popolazione disperatamente preparata alla difesa; prova di ciò l'entusiasmo mirabile da essa mostrata nell'erigere serragli e ripari, e il suo festoso accorrere alle armi: ora quell'entusiasmo, che l'umiliante capitolazione non aveva potuto abbattere, doversi assecondare; che se fosse destinata a soccombere, cadrebbe salvando però sempre l'onor suo".

Sparsasi in città la notizia dell'avvenuta capitolazione, sorse una viva agitazione che ben presto degenerò in tumulto. Enorme lo sdegno verso il re che molti accusavano di aver tradito Milano. Una turba di forsennati verso mezzogiorno si raccolse intorno al palazzo Greppi con il proposito d'impadronirsi della persona del re, onde POMPEO LITTA e LUIGI ANELLI, membri della Consulta, fendendo la calca, si recarono dal sovrano e lo scongiurarono di non abbandonare Milano in balìa del nemico. Giù nella piazza il tumulto cresceva, a stento i carabinieri contenevano la folla che voleva irrompere nel palazzo. Allora CARLO ALBERTO s'affacciò al balcone e, tra applausi, fischi, schioppettate e volgari ingiurie di ciarlatani, dichiarò che avrebbe continuato la guerra e poiché la folla non era soddisfatta di quelle dichiarazioni verbali fece pubblicare questo bando: "Cittadini ! Il modo energico con il quale l'intera popolazione si manifesta contro qualsiasi idea di transazione con il nemico, mi ha determinato a continuare nella lotta, per quanto le circostanze sembrino avverse. Tutto deve esser vinto da un solo sentimento: la liberazione d'Italia. Cittadini! il momento è solenne; che tutti si pongano all'opera. Forti della giustizia della nostra causa, il cielo coronerà gli sforzi di un popolo eroico affratellato con un esercito, che ha già versato tanto sangue per la causa italiana. Io rimango fra voi con i miei figli; per la causa comune io soffro da quattro mesi i disagi della guerra con la più eletta del mio popolo. Io confido in voi: mostrate dal canto vostro che giusta è la mia convinzione e tutti uniti saluteremo quanto prima il giorno della comune liberazione".

Ma erano parole. L'esercito sardo oramai non era più uno strumento di difesa, anzi era indignato contro i Milanesi e, credendo che il re era prigioniero, si preparava a liberarlo. Saputo questo, Carlo Alberto ordinò che nulla facessero i suoi soldati: "Dovesse anche questo popolo assassinarmi - disse egli - non permetterò giammai che i miei soldati si pongano al rischio di versare il sangue italiano !".

Intanto i tumulti ricominciavano; si chiudevano le botteghe, si sbarravano le porte, s'insultavano gli ufficiali regi; MANFREDO FANTI, non riconosciuto, corse pericolo di essere linciato dalla folla; si tentò di far saltare il portone del palazzo Greppi con un barile di polvere e gli autori del tentativo avrebbero effettuato il loro proposito se non fosse corso a sbandarli con un manipolo di bersaglieri e un battaglione della brigata Piemonte, il colonnello ALFONSO LA MARMORA. Nel frattempo il podestà PAOLO BASSI, il generale ROSSI, l'arcivescovo ROMILLI, tre assessori e un rappresentante del console francese si recavano dal RADETZKY, il quale li accoglieva garbatamente, e prolungava, in seguito alla loro richiesta; il termine stabilito per l'espatrio dei cittadini. Malgrado ciò l'agitazione popolare non accennava a diminuire, anzi, essendo esplosa la polveriera della caserma del Genio ed essendosi sparsa la voce che erano stati i regi, il tumulto aumentò e si temette seriamente per la vita del Re.

IL RE DI SARDEGNA LASCIA MILANO

Si era fatta sera. Truppe sarde al comando del colonnello DELLA ROCCA e del tenente LUIGI TORELLI giunsero, e unite a quelle condotte prima dal La Marmora, scortarono il Re e il Duca di Genova fino a Porta Orientale e di lì a Porta Romana e a Porta Vercellina, mentre le campane suonavano a stormo. Non pochi soldati caddero uccisi dalla furia popolare al fianco del sovrano; finalmente, sgombrato il cammino delle barricate, Carlo Alberto riuscì a mettersi al sicuro. Un solo battaglione delle Guardie rimase a Milano per consegnare, secondo i patti, agli Austriaci Porta Romana. Il resto dell'esercito sardo, in tre colonne, per Magenta, Abbiategrasso e Rho, prese la via del Piemonte, seguito da quasi un centinaio di migliaia di Lombardi, uomini e donne, vecchi e giovani, che si recavano in esilio oltre il Ticino o in Svizzera pur di non ricadere sotto il giogo austriaco e con la speranza della riscossa e con chissà quale vendicativa repressione.

Il giorno 6 agosto il maresciallo RADETZKY, alla testa del suo esercito, entrava a Milano e trovava la città quasi deserta, muta e costernata; il 7 Carlo Alberto giungeva a Vigevano e riceveva i ministri CASATI e GIOBERTI, venuti a lui per persuaderlo a continuare la guerra fidando nell'imminente arrivo degli aiuti francesi. Ma il sovrano dichiarò che "era necessaria una tregua delle armi se si voleva ricominciare poi la guerra con probabilità di vittoria". Allora i due ministri rassegnarono le loro dimissioni e quelle dei colleghi, e il Re le accettò.

Il rientro a Milano degli Austriaci Armistizio di Salasco



Il preliminare della Convenzione del 5 agosto


La convenzione d'Armistizio dell'Esercito Sardo il 9 agosto


I tristi proclami di Carlo Alberto del 7 e del 10 agosto da Vigevano


L'ARMISTIZIO SALASCO

Il giorno 9 agosto a Milano, il generale piemontese SALASCO, capo dello Stato Maggiore dell'esercito sardo, e il generale HESS, quartier-mastro dell'esercito austriaco, conclusero l'armistizio. Le condizioni erano contenute nei seguenti capitoli: "1° - La linea di demarcazione dei due eserciti sarà il confine stesso degli Stati rispettivi. 2° - Le fortezze di Peschiera, Rocca d'Anfo ed Osoppo saranno sgomberate dalle truppe sarde e alleate e consegnate alle truppe di S. M. Imperiale. La consegna di ciascuna di codeste piazze avverrà tre giorni dopo la dichiarazione della presente convenzione. Sarà restituito tutto il materiale di dotazione di quelle piazze che erano dell'Austria. Le truppe che escono porteranno con loro materiale, armi, munizioni e vestiario da esse introdotte e rientreranno a tappe regolari e per la via più breve negli Stati di S. M. Sarda. 3° - Gli Stati di Modena, di Parma e la città di Piacenza con la cerchia di territorio ad essa spettante nella sua qualità di piazza di guerra saranno sgomberati dalle truppe di S. M. il Re di Sardegna tre giorni dopo la notificazione della presente convenzione. 4° - Codesto trattato comprenderà del pari la città di Venezia e la terraferma del Veneto. Le forze militari sarde di terra e di mare abbandoneranno la città, i forti e i porti di quella piazza per rientrare negli Stati Sardi. Le truppe di terra potranno effettuare la loro ritirata per la via di terraferma e per tappe lungo una strada da convenirsi. 5° - Le persone e le proprietà nei luoghi citati sono posti sotto la protezione del governo imperiale. 6° - Quest'armistizio durerà sei settimane per dar seguito a negoziati di pace, e spirato un tal termine, esso sarà prolungato di comune accordo o denunciato otto giorni prima della ripresa delle ostilità. 7° - Saranno reciprocamente nominati commissari per la più facile ed amichevole esecuzione dei suddetti articoli".

IL PROCLAMA DI VIGEVANO

Il 10 agosto CARLO ALBERTO lanciò al suo popolo il seguente proclama:

"L'indipendenza della terra italiana mi spinse alla guerra contro il nostro nemico. Assecondato dal valore della mia armata, la vittoria arrise in prima alle nostre armi. Né io, né i miei figli abbiamo retrocesso davanti al pericolo; la santità della causa raddoppiava il nostro coraggio. Il sorriso della vittoria fu breve. Il nemico ingrossato, il mio esercito quasi solo a combattere, la mancanza di viveri ci costrinse ad abbandonare le posizioni da noi conquistate e le terre già fatte libere dalle armi italiane. Con l'esercito io mi ero ritirato alla difesa di Milano; ma, stanco dalle lunghe fatiche, non poteva questo resistere ad una nuova battaglia campale, perché anche la forza del prode soldato ha i suoi limiti. L'interna difesa della città non poteva sostenersi: mancavano denari, mancavano sufficienti munizioni di guerra e di bocca. Il petto dei cittadini avrebbe forse potuto per alcuni giorni resistere, ma per solo per seppellirci sotto le rovine, non per vincere il nostro nemico. Una convenzione fu da me iniziata, fu dai Milanesi medesimi proseguita, sottoscritta. Non ignoro le accuse con le quali si vorrebbe da alcuni macchiare il mio nome, ma Dio e la mia coscienza sono testimoni dell'integrità delle mie operazioni.

Abbandono alla storia imparziale giudicare. Una tregua di sei settimane fu stabilita per ora con il nemico, e avremo nell'intervallo condizioni onorate di pace o ritorneremo un'altra volta a combattere. I palpiti del mio cuore furono sempre per l'indipendenza italiana, ma l'Italia non ha ancora fatto conoscere al mondo che può fare da sé. Popoli del Regno! Mostratevi forti in una prima sventura. Mettete a calcolo le libere istituzioni che sorgono nuove tra noi. Se, conosciuti i bisogni dei popoli, io per primo ve le ho concesse, io saprò in ogni tempo fedelmente osservarle. Ricordo gli evviva con il quali avete salutato il mio nome: essi risuonavano ancora al mio orecchio nel fragore della battaglia. Confidate tranquilli nel vostro re. La causa dell'indipendenza italiana non è ancora perduta".

GIUSEPPE GARIBALDI E I SUOI VOLONTARI: COMBATTIMENTI DI LUINO E DI MORAZZONE

Torniamo indietro di qualche giorno. Giuseppe Garibaldi, partendo da Milano con la sua legione di volontari, il 1° agosto dal Governo provvisorio di Lombardia era stato mandato a Bergamo con l'ordine di sorvegliare il corso superiore dell'Adda, da Lecco a Cassano, e poi eventualmente collegarsi con la destra all'esercito sardo, ma l'ordine non fu eseguito perché, dopo la defezione del Sommariva, gli Austriaci si erano impadroniti di Grotta d'Adda. La sera del 3 agosto ricevette dal Comitato di difesa l'ordine di correre a Milano. Ai suoi volontari rivolse un breve proclama: "Legionari, il cannone tuona; il punto in cui siamo è pericoloso, siamo nella posizione di esser tagliati fuori, mentre il giorno di domani ci promette un campo di battaglia degno di voi. Dunque vi chiedo ancora una notte di sacrificio; proseguiamo la marcia. Viva l'indipendenza italiana!". Ma, giunto a Monza e conosciuta la capitolazione, anziché proseguire per Milano, piegò su Como per non subire le sorti dei vinti, deciso a fare la guerriglia con le sue bande. A Como il MAZZINI, che si era arruolato nella legione di Garibaldi, lo abbandonò e passò a Lugano, e da qui con il MAESTRI e con il RESTELLI sperava di suscitar nella penisola la guerra di popolo; ma molti altri legionari si allontanarono; pure Garibaldi non si scoraggiò e cercò di attirare a sé gli altri corpi di volontari della Lombardia, quelli del DURANDO, quelli del MANARA, del GRIFFINI, del D'APICE, scrivendo loro: "La guerra italiana contro l'Austria continua finché vi sono uomini che sanno e vogliono fare. Io sono sempre deciso a fare il mio dovere. Spero che voi dividerete gli stessi sentimenti e vi esorto quindi ad avvicinarvi alle mie le vostre forze. L'Italia farà questa volta veramente da sé".

Ma nessuno rispose al suo appello. GIACOMO DURANDO, che stava tra Gavardo e Vestorse, si ritirava verso Brescia per unirsi al GRIFFINI. Ma questi risalita la valle dell'Oglio e passato nella Valtellina, arretrava in Svizzera; a quel punto il Durando, ordinato ai trecento finanzieri che presidiavano Rocca d'Anfo di consegnare il castello agli Austriaci, si dirigeva su Adro per poi passare a Bergamo e da qui in Piemonte. I volontari del D'Apice, che stavano in difesa dello Stelvio, alla notizia dell'armistizio, ritenendo inutile e vana ogni altra azione, si sbandarono. Rimasto con millecinquecento uomini, da S. Fermo, dov'era il 7 agosto, s'incamminò per Varese, verso il Ticino, e, dopo averlo attraversato a Sesto Calende, entrò il 10 agosto a Castelletto. Qui venuto a sapere dell'armistizio Salasco, n'ebbe sdegno e lanciò un violentissimo proclama agli Italiani, in cui dichiarava di non potersi conformare alle umilianti convenzioni ratificate "con il nemico d'Italia il Re di Sardegna", al quale, più tardi faceva sapere che " lui e i suoi compagni non potevano consentire alla pace con il nemico della patria e che erano disposti a continuare la guerra contro il nemico comune in Lombardia e dovunque fosse più necessario".

Il 14 agosto GARIBALDI lasciò Castelletto; ad Arona, dove giunse quel giorno stesso, requisì viveri, barche e due vapori, il "San Carlo" e il "Verbano", e, imbarcati i suoi volontari, passò a Luino. Verso la sera del giorno dopo, mentre la legione, divisa in tre scaglioni, si dirigeva verso la val Travaglia, Garibaldi seppe che tre compagnie austriache, costeggiando il lago, marciavano su Luino. Deciso di attaccare il nemico, ordinò ad uno degli scaglioni di occupare l'osteria della Beccaccia, ma gli Austriaci avevano anticipato i legionari che dovettero scacciarli alla baionetta. Gli Austriaci, messi in fuga, lasciarono sul terreno due morti, quattordici feriti e ventitré prigionieri, ma nessuno di loro si sarebbe salvato se i legionari avessero avuto un po' di cavalleria per inseguirli.

Contro i legionari del GARIBALDI, che il 18 agosto entravano a Varese, il RADETZKY spedì il II corpo d'armata comandato dal D'ASPRE, che doveva essere sostenuto, occorrendo dalle brigate Maurer e Strassoldo, le quali si trovavano a Gallarate e a Tradate: in totale sedicimila uomini circa con trentasei pezzi d'artiglieria.

Informato dell'avvicinarsi di tante forze, il giorno 20 agosto Giuseppe Garibaldi si trasferì sulle alture d'Induno, distaccando la compagnia Medici a Viggiù, ma questa, ricevuti contrordini, la sera del 22 ridotta per le diserzioni a soli centodieci uomini, si portò a Ligurno e il giorno dopo, tra questa località e Rodero, tenne testa per tre ore ad una parte della brigata Schwartzenberg. Minacciato al fianco e alle spalle, il Medici, con i suoi che si erano battuti coraggiosamente, dopo un'ultima resistenza sul Monte S. Maffeo, passarono il confine svizzero.

Deciso a farla finita con i volontari, il D'ASPRE, spiegando opportunamente tutte le sue forze, prima tentò di chiuderli tra il Lago Maggiore, il confine svizzero e il Lago di Como, poi fra i laghi di Varese, di Monate e di Comabbio; ma tutte e due le volte il Garibaldi sfuggì alla stretta, la prima volta girando abilmente per la Valganna e la Val Cuvia intorno al massiccio di Campo di Fiori, la seconda gettandosi per la strada Tornate-Morvago-Caidate, su Morazzone, dove giunse alle 17 del giorno 26 con ottocento uomini circa. Circondati da tutte le parti, per le nuove disposizioni impartite dal comando austriaco alle truppe, i legionari, la sera del 26 furono attaccati di sorpresa da parte della brigata Simbschen e, dopo una mischia, la scacciarono alla baionetta dall'abitato dove era penetrata. Assalito nuovamente, poco dopo, dal lato opposto, da reparti, austriaci comandati dallo stesso D'Aspre, i volontari tuttavia resistettero costringendo il nemico a rimandare il giorno dopo l'attacco decisivo.

Garibaldi, invece non aspettò il giorno dopo. Durante la notte, uscì inosservato da Morazzone, dirigendosi verso il lago di Varese, ma nel buio della notte la colonna si disperse né riuscì più a tenerla insieme. Garibaldi rimasto solo con una settantina di volontari proseguì verso il confine svizzero attraversandolo la notte del 27 agosto. Seguito poi alla spicciolata da altri legionari che s'erano in precedenza sbandati.

I BOLOGNESI SCACCIANO GLI AUSTRIACI

Dopo la battaglia di Custoza (quindi molto dopo l'"allocuzione" di Pio IX del 29 aprile) il generale WELDEN aveva mandato sulla destra del Po un piccolo distaccamento di Austriaci che gli abitanti di Sermide avevano attaccato e messo in fuga. Il 28 luglio altre truppe invasero le terre dello Stato Pontificio, saccheggiando e taglieggiando, e alcuni giorni dopo lo stesso Welden passò il Po e marciò su Ferrara. Pio IX protestò energicamente contro la violazione austriaca, fece i suoi indignati passi presso le potenze europee e spedì al WELDEN il cardinal MACINI, il principe CORSINI e il ministro GUERRINI, per intimargli di uscire dal suo Stato, mentre il ministero pubblicava la seguente dichiarazione:

"Sua Santità è nella ferma risoluzione di difendere lo Stato suo contro l'invasione austriaca con tutti i mezzi che lo Stato e il ben regolato entusiasmo dei suoi popoli possono fornire. Sua Santità smentisce altamente per mezzo nostro le parole del signor maresciallo Welden (che accennavano al buon accordo dell'Austria con il Papa), protestando contro qualsivoglia sinistra interpretazione si volesse dare alle medesime, e dichiarando che la condotta del signor Welden stesso è tenuta da Sua Santità come ostile alla Santa Sede ed a Nostro Signore, il quale può intendere e intende di separare la causa dei suoi popoli dalla sua, e ritiene come fatta a sé ogni onta, ogni danno arrecato ai popoli medesimi".

Ma WELDEN, non curandosi delle proteste, occupato il Ferrarese, puntò pure su Bologna, mentre il LIECHTENSTEIN marciava su Parma, Reggio e Modena. Bologna, per l'assenza del cardinale AMAT, era governata da CESARE BIANCHETTI, che riuscì a stento a tenere fermi i cittadini, i quali volevano respingere con la forza gli invasori, quantunque novemila volontari (gli stessi che per la capitolazione di Vicenza e Treviso, erano stati lasciati liberi di ritirarsi, ma avevano promesso di non combattere gli austriaci per tre mesi) fossero partiti con diciannove pezzi d'artiglieria e nella città non rimanessero che duecentottanta carabinieri, centotrentasei finanzieri e la guardia civica comandata dal conte PEPOLI.

All'avvicinarsi degli Austriaci, il BIANCHETTI, mandò presso il Welden CESARE BRUNETTI e FILIPPO MARTINELLI ed ottenne che le truppe accampassero fuori della città, limitandosi ad occupare le porte S. Felice, Galliera e Maggiore; ma in un paese mal disposto alla presenza di un nemico arrogante non potevano mancare gl'incidenti. Uno ne avvenne il giorno 8 in una trattoria, dove un ufficiale austriaco, avendo insultato un cittadino, fu disarmato e percosso. Il Welden, avuta notizia del fatto, intimò di subito ricercare, scovare e consegnare i colpevoli e nel frattempo pretese la consegna di alcuni ostaggi. BIANCHETTI offri in ostaggio se stesso, ma il popolo non lo permise. Allora quattromila Austriaci penetrarono in città, che però al suono improvviso delle campane, si sollevò. Drappelli di cittadini scendevano armati nelle vie decisi a scontrarsi con il nemico; dalle case e dai tetti si sparava e si lanciavano proiettili di ogni sorta; dai casolari e dai villaggi vicini numerosi contadini accorrevano con forche e bastoni e ogni cosa a dar man forte ai fratelli della città. Qui gli Austriaci, respinti da ogni punto, si erano rinforzati con l'artiglieria sull'altura della Montagnola, intorno alla quale in breve si concentrò un'accanita battaglia. Un centinaio tra carabinieri e finanzieri, guidati dal sottotenente FRANCESCO BONESI e seguito da numerosi cittadini diedero l'assalto alla Montagnola e, respinta una colonna che tentava da porta Lamme di coglierli alle spalle, riuscirono dopo tre ore di mischia furibonda a mettere in fuga gli Austriaci. I Bolognesi ebbero quel giorno centodieci uomini fuori combattimento, i nemici invece lasciarono sul terreno centottanta soldati tra morti e feriti e mezzo migliaio di prigionieri oltre ad aver perso alcuni cannoni. La mattina del 9 agosto, gli Austriaci, in tre colonne, attraverso Panigale, Corticella e Sabbione lasciarono Bologna dirigendosi verso il Po, mentre dai paesi vicini schiere d'armati accorrevano nel capoluogo per difenderlo da un eventuale tentativo nemico di vendicare la sconfitta patita. Ma il RADETZKY aveva disapprovato l'operato del WELDEN, preoccupato dallo sdegno che accendeva i petti delle popolazioni pontificie e dal contegno energico del governo di Roma, dove il conte FABBRI, ministro dell'Interno, esaltava in un pubblico manifesto il valore dei Bolognesi ed assicurava il popolo che sarebbe stato tutelata l'incolumità della nazione: "Cittadini, i valorosi Bolognesi perseverano nell'eroica difesa della loro città loro e danno un ammirabile ed inimitabile esempio di amor patrio e di valore italiano. Voi pure, o Romani, animati di generosi spiriti, siete già risoluti a fiaccare la tracotanza dell'insolente straniero, e il governo vi rincuora e vi asseconda alla magnanima risoluzione. Siate fiduciosi nel governo, siate fiduciosi in me, a cui scorre nelle vene una fiamma che per anni non può spengersi, quando si tratta della libertà nostra e dell'Italia. Il governo ha già aperto i ruoli, ed appena conoscerà il numero degli scritti, si farà sollecito ad ordinare la partenza, agevolando la speditezza delle marce. Intanto serbate ordine, serbate dignitoso portamento per dare, con novella prova dell'italico senno e della romana fortezza, una smentita di più allo straniero, che dopo aver attentato all'indipendenza dell'Italia, attenta a quella dello Stato della Chiesa. Unione, o Romani, abbracciamoci tutti, e con la benedizione di Dio e del Pontefice sfideremo la rabbia nemica".

VENEZIA DOPO L'ARMISTIZIO (resiste)

Due giorni dopo della partenza degli Austriaci da Bologna, a Venezia, dove fin dal 7 agosto governavano i tre commissari regi JACOPO CASTELLI, VITTORIO COLLI, LUIGI CIBRARIO e il comando supremo delle truppe era stato affidato al generale GUGLIELMO PEPE, un messo austriaco portava l'annunzio dell'armistizio Salasco, che comprendeva la restituzione della città veneta. La notizia produsse grande agitazione nel popolo, e credeva che il COLLI e il CIBRARIO, piemontesi, erano stati mandati per consegnare Venezia al nemico. Ma l'annuncio non era ancora ufficiale e i commissari non vi prestarono fede. Chiamati i consultori dichiararono che se mai la notizia fosse stata vera .... "non si presterebbero a partecipare minimamente ad un atto che ripugna ai loro sentimenti, come sarebbe la consegna di Venezia; che dal momento in cui ricevessero notizia ufficiale di tale convenzione, considererebbero il loro mandato come cessato, e Venezia ritornava alla condizione politica in cui era al momento della fusione con il regno sardo-lombardo; che quindi Venezia era libera d'agire come Stato indipendente nel modo che credesse più utile alla causa propria ed italiana, valendosi della cooperazione dei propri privati cittadini".

Il commissario CASTELLI, "veneziano", aggiunse: "La convenzione è nulla per lo stesso patto della fusione, non potendosi decidere delle sorti del paese senza l'adesione della Consulta; in ogni modo l'abbandono di Venezia da parte del Re ripone la città nello stato di prima. Essa nata libera e tale mantenendosi finché fu oppressa dalla forza, e poi dopo cinquant'anni rivendicatasi a libertà, non ha per la prima volta dalla sua origine aderito ad una monarchia che ad un patto inefficace, sicché la causa della sua libertà originaria rimane integra e potrà soccombere solo a quelle violenze che fanno perire i diritti" (più avanti vedremo poi come si comportò !!!)

La sera una gran folla si radunò intorno al palazzo nazionale gridando: "Abbasso i traditori ! Morte ai Commissari!" ANTONIO MORDINI, invitato il COLLI (il piemontese che aveva portato la notizia) a dimettersi, si prese questa fiera risposta: "Che violenza è questa? Credete di spaventarmi? Ho lasciato una gamba sul campo di battaglia, ho consacrato alla patria quattro figli, soldati al pari di me. Non voglio ritirarmi dinanzi al pericolo, morirò al mio posto, non m'importa in qual modo, né mi,dimetterò se non quando avrò notizia ufficiale dell'armistizio". Ma intanto il tumulto cresceva. Dalla piazza si urlava: "Fummo traditi! Fummo venduti ! A terra il mal governo ! Vogliamo Manin ! Viva Manin il salvatore della patria !". E DANIELE MANIN, prontamente accorso, risoluto s'affacciò al balcone e affermò che si faceva garante del patriottismo dei commissari e che con loro avrebbe preso gli "opportuni provvedimenti per il salvataggio della città".

Aggiunse il CASTELLI che, ricevuta la conferma dell'armistizio Salasco, i commissari deponevano il potere per poi radunare l'assemblea: ma il popolo voleva le dimissioni immediate e tumultuava. Allora il MANIN disse: "I commissari regi dichiarano di astenersi fin da questo momento dal governo. Dopodomani si radunerà l'assemblea della città e della provincia e nominerà i nuovi rettori. Per queste quarantotto ore governo io".

Il popolo applaudì, ma, siccome continuava a tumultuare, il Manin andato nuovamente al balcone, aggiunse: "Fra poco si batterà la Generale; la guardia civica sia in armi; da ogni battaglione sarà scelto un buon numero di cittadini che questa notte medesima andranno al forte di Marghera, dove lì si teme la minaccia del nemico". Dalla folla si gridò: "Vi andremo tutti ! Armi ! Vogliamo armi !" E il Manin: "Armi ne avrete. Tutto serve da arma ad un popolo che vuole difendersi. Ricordate il 22 marzo, e con quali armi avete cacciato fuori l'austriaco. Ora sgombrate la piazza: ho bisogno di silenzio e di calma per provvedere ai bisogni della patria".


Il giorno 12 agosto il COLLI e il CIBRARIO, nonostante il Manin li pregasse di collaborare al nuovo governo, salirono a bordo di una nave della flotta sarda e il 15 abbandonarono Venezia.

Rimase il CASTELLI (il "veneziano") ma più tardi partì anche lui e, recatosi a Torino, fu nominato da CARLO ALBERTO consigliere di Stato. Morì poi il 18 marzo del 1849, in tempo per non assistere all'onta di Novara.

Il 13 agosto si radunò l'assemblea. Su proposta del deputato ANTONIO BELLINATO, fu messo alla testa del governo il Manin, il quale volle al suo fianco l'ammiraglio LEONE GRAZIANI e il colonnello G. B. CAVEDALIS affinché dirigessero la difesa marittima e terrestre della città. Il 20 agosto il Triumvirato avvisò il governo sardo che l'opera sua si limitava alla difesa e al mantenimento dell'ordine e che... "tutte le condizioni politiche precedenti rimanevano impregiudicate e incolumi i diritti e i doveri della città e provincia intorno al proprio reggimento e intorno all'appartenenza politica". Il 5 settembre, ricevutone ordine da Torino, ALBERTO DELLA MARMORA parti con i suoi tre battaglioni piemontesi; il 7 settembre parti anche la flotta dell' ALBINI che si recava ad Ancona, e Venezia rimase abbandonata a sé stessa, nelle circostanze l'unico fiero e nobile baluardo di italianità e di indipendenza accerchiato da un nemico, come vedremo, implacabile.

Ci ritorneremo sopra in una prossima puntata, ancora ma già anticipiamo come fu la resistenza dei Veneziani.

Manin convocata l'assemblea aveva chiesto ai Veneziani con voce commossa ma decisa: "Volete resistere al nemico? - Vogliamo resistere!- Ad ogni costo? - Ad ogni costo!" Passarono infatti mesi, e si entrò nel successivo anno. Gli austriaci concentrarono sulla terra ferma truppe e cannoni decisi a punire severamente la Serenissima. E venne il giorno fatidico: il Lunedì Santo, 2 Aprile 1849. In ogni angolo delle calli e dei campi apparve un breve proclama, con due righe soltanto! "Venezia resisterà all'Austriaco a tutti i costi". La firma non era necessaria. Tutti sapevano che quell'ordine di resistere ad oltranza proveniva da Manin. E i veneziani non si fecero pregare tanto, si prepararono con tutti i mezzi per difendersi.

Intanto venticinquemila Austriaci si preparavano ad assaltare la città lagunare; centocinquanta cannoni contemporaneamente iniziarono a sparare, cercando di abbattere la fortezza di Marghera. Qui una guarnigione veneta aveva il compito di difendere l'ingresso a Venezia. Ma gli uomini del presidio difensivo, sotto i primi colpi austriaci, furono massacrati. Ma non cedettero, preferirono morire; scelsero di farsi seppellire tra le rovine della fortezza. Anche quando rimasero in pochi a nessun veneziano venne in mente di alzare bandiera bianca.

I veneziani si barricarono; ma i tre mesi che seguirono furono terribili e tragici per Venezia. L'assedio navale e terrestre cingeva la città da ogni lato isolandola completamente, come se non bastasse la stessa Laguna. Di conseguenza non arrivavano né più viveri né potevano arrivare rinforzi. Caduta la fortezza a Marghera, con i cannoni più vicini, le bombe per due mesi iniziarono a cadere quotidianamente sulle case, nei campanili, incendiando Venezia ovunque, facendo scempio di secolari palazzi, chiese, tesori d'arte.

Poi, oltre gli austriaci, apparvero subito dopo, nel luglio caldo e afoso, altri nemici più tremendi: la fame e il colera. Ogni giorno si contavano morti di fame, di malattie varie e di epidemia, e morente appariva ormai anche la neo-Repubblica. Alla fine, il 23 agosto 1849 per evitare la distruzione totale dell'amata città (il colera intanto aveva già mietuto 270 vite umane e diverse centinaia erano gli appestati) Manin, Tommaseo ed altri 40 "ribelli", si arresero senza condizioni all'intimazione del maresciallo Radetszky. Arrestati furono inviati in esilio in Francia; qui Manin poi morì nel 1857.

La risorta Repubblica era durata poco più di un anno, la dura resistenza all'assedio cinque mesi. Lo sconforto fu tanto, l'amarezza pure. Tutto era stato inutile. Sottoscritta la resa, dovranno passare altri 18 anni di dominio austriaco.

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