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Discorso e dibattito del 27 marzo 1861, per la proclamazione di Roma a capitale del Regno d'Italia

Il dibattito avviato con le interpellanze di Audinot prosegue brevemente dopo il discorso di Cavour e riprende il giorno successivo con gli interventi degli onorevoli Pepoli, Gioachino, Torelli e Bon Compagni: quest'ultimo presenta anche un suo voto motivato per la riunione della città di Roma all'Italia, seguito dalle Risoluzioni proposte dai deputati Greco e Ricciardi (rispettivamente per proclamare Roma capitale e - più moderatamente - per esprimere «questo desiderio concorde della nazione»), nonché dagli interventi più cauti e critici dei deputati Ferrari e Bertolani. In questa occasione Cavour interviene brevemente per scongiurare la chiusura della discussione, proposta dall'on. Gallenga con la motivazione che gli argomenti stavano diventando più accademici che politici, sostenendo per contro che la questione «è una delle più gravi che possano occupare un Parlamento» (Regno d'Italia, Camera dei deputati, seduta del 26 marzo 1861, p. 310). Tuttavia, è solo nella successiva seduta del 27 marzo che Cavour riprende la parola per un più lungo e articolato discorso, che fa riferimento ai molti interventi che lo precedono, tra cui due voti motivati: quello del deputato Petruccelli il quale, considerando «che il possesso di Roma, come capitale d'Italia, è una necessità d'ordine e di salute pubblica», chiedeva al Presidente del Consiglio «di esprimere all'imperatore Napoleone ed al Gabinetto inglese il voto che si lasci all'Italia risolvere direttamente colla Corte pontificia la discordia nazionale»; e quello del deputato Levi, che invitava «a provocare che cessi l'occupazione straniera in Roma, ed a presentare quelle leggi che verranno a costituire su salda e libera base lo Stato ed emanciparlo da ogni altra autorità» (Regno d'Italia, Camera dei deputati, seduta del 27 marzo 1861, p. 317).

-S.M. Vittorio Emanuele II di Savoia, 1°re d'Italia e 8°re di Sardegna-

Da questi ed altri spunti Cavour prende le mosse per il suo discorso: «Esaminati i tre ordini del giorno di ieri, e i due ordini del giorno d'oggi, mi pare che concorrano tutti nel pensiero finale; tutti sono concordi nel volere che si acclami Roma come capitale d'Italia, che si solleciti il Governo ad adoperarsi, onde questo voto universale abbia il suo compimento. Ma siami concesso di dichiarare che, tanto per la forma, quanto per la sostanza, nessuno di quei voti motivati riassume, a mio giudizio, in modo più conciso e più preciso dell'ordine del giorno Bon Compagni le idee espóste così lucidamente dall'onorevole interpellante, accolte senza riserva dal Ministero, e che furono tanto favorevolmente ascoltate da questa Camera. [...] io ripeto che il proclamare la necessità per l'Italia di avere Roma per capitale non solo è cosa prudente ed opportuna, ma è condizione indispensabile del buon esito delle pratiche che il Governo potrà fare per giungere alla soluzione della questione romana. [...] Non intendo che la Camera, votando l'ordine del giorno del deputato Bon Compagni, cioè acclamando Roma per capitale d'Italia, obblighi nel primo giorno che Roma sarà libera di partire immediatamente per andare a sedere in non so qual palazzo di Roma. Egli è evidente che il trasferimento della capitale, quando possa farsi, dovrà essere l'oggetto, non solo di una determinazione del Ministero, ma di un voto del Parlamento. Non è in facoltà del potere esecutivo di trasferire la capitale del regno [...]. La quistione della possibilità di differire per lungo periodo di tempo il trasferimento della capitale a Roma, essendo stata sollevata, mi credo in obbligo di aggiungere un solo argomento [...] della natura di quelli che i matematici dicono ad absurdum, il quale consiste nel supporre verificata l'ipotesi dei nostri avversari e quindi dedurne le conseguenze. Per dimostrare quali conseguenze funeste potrebbero nascere, se il trasferimento della capitale in Roma non si operasse subito che gli ostacoli insurmontabili, che esistono in ora, saranno scomparsi, io suppongo quell'epoca già venuta, e Roma riunita all'Italia, ma non fatta la sua capitale. Io non posso a meno di prevedere che, finché la questione [...] fosse tenuta in sospeso per motivi anche di qualche importanza, ma non supremi, l'Italia tutta sarebbe in uno stato di agitazione e di lotta. Vi sarebbe una lotta vivissima fra coloro che vogliono andar a Roma immediatamente e coloro che vorrebbero ancora differirne il traslocamento della capitale; [...] meglio sarà quanto più presto si potrà andare a Roma; ben inteso, senza mettere in pericolo la sicurezza dello Stato, senza rendere più malagevole l'ultima fase del risorgimento italiano, senza sconvolgere il Governo; ben inteso, infine, che questo trasferimento si faccia con tutta quella gravità e ponderatezza che un affare così grande richiede. [...] Ormai, o signori, mi pare che la questione dell'indipendenza del sovrano pontefice, fatta dipendere dal potere temporale, sia un errore dimostrato matematicamente ai cattolici di buona fede [...]. Mi pare quindi che noi dobbiamo avere l'assenso dei cattolici di buona fede su questo punto. Rimane a persuadere il pontefice che la Chiesa può essere indipendente, perdendo il potere temporale. Ma qui mi pare che, quando noi ci presentiamo al sommo pontefice, e gli diciamo: Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia d'indipendenza; rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche; [...] ebbene, quello che voi non avete mai potuto ottenere da quelle potenze, che si vantavano di essere i vostri alleati e vostri figli divoti [sic], noi veniamo ad offrirvelo in tutta la sua pienezza; noi siamo pronti a proclamare nell'Italia questo gran principio: Libera Chiesa in libero Stato. I vostri amici di buona fede riconoscono [...] che il potere temporale quale è non può esistere. Essi vengono a proporvi delle riforme, che voi qual pontefice non potete fare; vengono a proporvi di promulgare degli ordini, nei quali vi sono dei principii che non si accordano colle massime, di cui dovete essere il custode; [...] essi vi chieggono quello che non potete dare, e siete costretto a rimanere in questo stato anormale di padre dei fedeli, obbligato a mantenere sotto il giogo i popoli con delle baionette straniere, oppure ad accettare il principio di libertà, [...] nel paese dove il cattolicismo ha la sua sede naturale. A me pare, o signori, essere impossibile che questo ragionamento, questa proposta fatta con tutta sincerità, con tutta lealtà non venga favorevolmente accolta. [...] Noi crediamo che si debba introdurre il sistema della libertà in tutte le parti della società religiosa e civile; noi vogliamo la libertà economica; noi vogliamo la libertà amministrativa; noi vogliamo la piena ed assoluta libertà di coscienza; noi vogliamo tutte le libertà politiche compatibili col mantenimento dell'ordine pubblico; e quindi, come conseguenza necessaria di quest'ordine di cose, noi crediamo necessario all'armonia dell'edifizio che vogliamo innalzare, che il principio di libertà sia applicato ai rapporti della Chiesa e dello Stato. [...] Queste verità saranno accolte dalla pubblica opinione, e, senza poter prevedere il tempo che si richiederà, onde queste opinioni acquistino una potenza irresistibile, io penso non farmi illusione dichiarando che in un secolo, in cui anche nel mondo intellettuale si fa uso della locomotiva, queste idee non tarderanno ad essere generalmente accolte. [...] Io spero che, realizzate queste due condizioni, convinti i cattolici, ottenuto il concerto colla Francia, vi sarà modo d'intendersi col santo padre. Io non voglio prevedere il caso dell'impossibilità dell'accordo [...]. Comunque poi sia, o signori, egli è evidente che, onde raggiungere questo scopo così importante e glorioso, è necessario che il Governo sia investito di tutta la maggior forza morale possibile. Egli è per ciò che io mi permetterei di fare appello ai vari autori degli ordini del giorno deposti sul banco della Presidenza, ordini del giorno che, a quanto mi pare , non differiscono fra loro nella sostanza, e li pregherei di accettar tutti l'ordine del giorno proposto dal deputato Bon Compagni, che in termini così precisi, così espliciti acclama Roma come capitale dell'Italia; e dichiara che, nello stesso tempo che Roma si riunisce all'Italia, si deve assicurare l'indipendenza, la dignità, il decoro del pontefice, e che bisogna assicurare la piena, l'assoluta libertà della Chiesa, e riconosce nello stesso tempo la necessità del concerto colla Francia. Se dunque i vari ordini del giorno proposti dagli onorevoli preopinanti non si scostano da questo nella sostanza, non dividiamoci su questioni secondarie e massime su questioni di forma; riuniamoci tutti in un solo concetto, in un solo pensiero. Votate, o signori, quest'ordine del giorno, per darci la forza di vincere le difficoltà che vi abbiamo indicate; votatelo unanimi, e con ciò ci sarà forse dato di conseguire in un non lontano avvenire uno dei più gran risultati che siansi mai verificati nella storia dell'umanità, di conseguire la riconciliazione del papato e dell'impero, dello spirito di libertà col sentimento religioso. Io confido, o signori, nell'unanimità dei vostri voti». Di lì a poco, il dibattito si conclude. Il Presidente Rattazzi invita a esprimersi sul voto proposto dal deputato Bon Compagni, emendato dal deputato Regnoli, così formulato: «La Camera, udite le dichiarazioni del Ministero, confidando che, assicurata la dignità, il decoro e l'indipendenza del pontefice e la piena libertà della Chiesa, abbia luogo di concerto con la Francia l'applicazione del non intervento, e che Roma, capitale acclamata dall'opinione nazionale, sia congiunta all'Italia, passa all'ordine del giorno». La Camera approva «alla quasi unanimità». La questione romana sarà dibattuta in Parlamento ancora per diversi giorni, ma la formula "Libera Chiesa in libero Stato" era ufficialmente posta all'attenzione internazionale.

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